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Graziani G. (2019) Commento alla relazione di A.M. Nicolò Al di là dell’Interpretazione

Testo della relazione presentata al convegno

Al di là dell’Interpretazione. Note sul cambiamento in psicoanalisi

 Firenze 30 marzo 2019

Ringrazio Anna Nicolò per il regalo che ci ha fatto con la sua relazione. Commentarla per esteso è una operazione che non posso assolvere tanto è il materiale che lei ci ha offerto. Mi limiterò pertanto a sottolineare alcuni aspetti.

Il primo dato che emerge e che fa da sottofondo è la trasformazione della psicoanalisi nel suo complesso, il suo transitare da una dimensione classica ad una più aperta ai cambiamenti di paradigma.

Anna Nicolò rapporta questo mutamento al confronto con una mutata categoria di pazienti, pazienti più gravi e più difficili. Non è forse il solo motivo, ma sicuramente è vero. Basti pensare a come oggi si parli di dissociazione e di trauma, due elementi  che la psicoanalisi classica ha sempre considerato tabù. Il primo perché avulso dall’inconscio dinamico e soprattutto perché riconducibile a Janet, colui che è stato a lungo ed erroneamente considerato come il principale nemico di Freud. Il secondo, il trauma, dopo essere stato inizialmente sovrastimato da Freud, con l’abbandono della teoria della seduzione a favore dell’Edipo perse ogni rilevanza patogenetica e la negazione del trauma reale costituì fino a qualche decennio fa, come ripeteva Anna Freud, la cartina di tornasole del credo analitico. Oggi evidentemente non può essere più così anche perché gli analisti si confrontano con una popolazione di pazienti che sempre più si avvicina a quella che Janet incontrava alla Salpêtrière  e non quella che frequentava le ovattate stanza d’analisi del tempo. 

Nella relazione si coglie un altro cambiamento rispetto al modello classico. Anna Nicolò parla infatti di due sistemi inconsci paralleli. Un inconscio freudiano o dinamico che ha un’etichetta simbolica e che è inconscio solo a ragione della rimozione. E’ la sede di tutte le rappresentazioni affettive importanti e il suo contenuto viene rappresentato simbolicamente sotto forma di immagini o in forma verbale. Si tratta questo di un inconscio depositario di una conoscenza dichiarativa la quale può raggiungere attraverso l’interpretazione dell’analista il piano della consapevolezza propria del sistema conscio.  L’altro inconscio di cui Anna Nicolò ci parla è un inconscio implicito, depositario di schemi adattativi appresi in un più o meno lontano passato dei quali si è inconsapevoli e di cui non si conosce l’origine. I suoi contenuti non sono rappresentati simbolicamente, ma non sono necessariamente inconsci sul piano dinamico, nel senso che non sono esclusi difensivamente dalla consapevolezza tramite la rimozione, semplicemente emergono spontaneamente come stili relazionali, non sono fonte di conflitto e il più della volte non ci facciamo caso. Non avendo caratteri dichiarativi (simbolici o verbali) non ha nulla a che fare, né risente delle interpretazioni dell’analista, mentre risentirebbe dei mutamenti nel campo relazione implicito, analista-paziente. Aggiungerei, a quanto proposto da Anna Nicolò, un altro sistema inconscio che non risente né dell’interpretazione, né dei mutamenti impliciti del campo, bensì di riconoscimento,  accettazione e modulazione. Parlo di quell’inconscio che Jung denominò collettivo e che oggi trova corrispettivo nei moduli cerebrali descritti da Chomsky, Fodor, Gazzanica e dalla psicologia evoluzionistica, moduli che ad esempio hanno a che fare con le difese psicobiologiche, con la selezione del partner, con il dimorfismo psicologico, l’identità di genere, con l’oggetto delle fobie, con le emozioni, ecc.

A ognuno di questi tre sistemi inconsci sembrerebbero corrispondere azioni terapeutiche specifiche: l’interpretazione, i mutamenti del campo relazionale implicito, riconoscimento-accettazione-modulazione. Questi tre sistemi , come del resto ogni aspetto della natura,  sono tra loro interconnessi  e presentano, come dimostrano i lavori clinici presentati da Anna Nicolò, la possibilità di una elaborazione  e di un utilizzo paralleli.  Perché ogni azione possa definirsi terapeutica sono necessari però dei pre-requisiti. In primis il terapeuta, lui non solo in qualità di promotore della cura, come dice Anna Nicolò, ma lui anche come persona. E’ forse esperienza troppo banale per rifletterci normalmente sopra, ma quando noi indirizziamo un amico in terapia lo facciamo pensando a quel terapeuta più come ad essere umano che come esperto o accademico, pensiamo a come starebbero assieme loro due, alle qualità umane del terapeuta, ecc..  Altro pre-requisito essenziale ed esso stesso agente di cambiamento è , “primo fra tutti” per Anna Nicolò, il setting. Al difuori del setting e della sua asimmetria ognuna delle tre azioni terapeutiche citate perderebbe valore, sarebbero chiacchere al bar tra amici. Infine un altro prerequisito importante, Freud vi dedica metà delle pagine sulla tecnica e Bion un intero libro, è l’attenzione. All’analista e in modo implicito, tramite la regola fondamentale, anche al paziente è richiesto di entrare con un atto di volontà in uno stato di coscienza particolare non molto dissimile a quello che in ambito Zen si chiama “mente del principiante”.  Sono rimasto molto colpito, credo non solo io, dal primo caso clinico presentato e dall’uso fatto dalla paziente della stanza di attesa. Non era un attacco all’analisi, ma rivela Anna Nicolò un prepararsi all’analisi, un entrare in uno stato di coscienza che la favorisca.  E’ un invito che potremmo accogliere anche noi. Da alcuni studi il pre-seduta, quei dieci minuti tra un paziente e l’altro, sembra  avere la proprietà di influire molto sullo svolgersi della terapia, può ad esempio facilitarci nell’accogliere il paziente con mente più sgombra. Stefania Manfredi, l’ho ricordato qualche sera fa, mi diceva che lei prima della seduta andava in cucina a girare il ragù, dubito fosse sempre vero, ma lo spirito era quello, placare la mente. Stessa cosa sembra fosse per la paziente il suo dormicchiare.

Come Anna ben sa perché me lo ha insegnato proprio lei quando eravamo giovani, nello stare della paziente in sala di attesa vi era anche un livello comunicativo, pragmatico, che ha poi indotto a modiche nel campo relazionale. Anna è uscita dalle speculazioni analitiche, che tra l’altro la paziente sembrava non cogliere, e si è ritrovata a enfatizzare le sue doti umane, doti ovviamente implicite, ad essere senza finzione  più calorosa, leggermente scherzosa, benevola. La mutata interazione tra analista e paziente ha poi iniziato ad agire quale nuovo contesto in cui hanno preso forma le formulazioni mentali successive e in cui sono stati riorganizzati gli eventi passati: per quanto la dimensione implicita dell’essere-con non appartenga all’inconscio dinamico ed è altro rispetto al transfert, Anna Nicolò ci  mostra com’essa abbia preso corpo parallelamente al transfert ed abbia contribuito a sue nuove attribuzioni di significato: ad es. Transfert con madre severa, Transfert con nonna accogliente.

Il secondo caso clinico è contraddistinto da un momento di incontro avvenuto in modo pre-riflessivo, con il corpo (le mani) in primo piano, con un apporto attivo, non calcolato, non neutro, autentico, ove ciascuno si è incontrato non nascosto dietro i rispettivi ruoli. Nel loro intimo forse entrambe  già  sentivano  che la terapia era giunta a quel punto, solo che la sensazione non si è trasformata in pensiero ma in azione spontanea.

Uno dei casi ci porta nell’area del  trauma e della dissociazione. Sulle nevrosi traumatiche Freud scrisse pagine ancora attuali, secondo il suo parere il trauma produceva un danno strutturale e permanente, i pazienti erano prigionieri di una ripetitività senza fine, non analizzabili in quanto questa tipo di nevrosi , scrive Freud, “ non siamo riusciti a ricondurla nel nostro quadro teorico”. I sogni dei pazienti con trauma sono gli unici sogni che per Freud non rispecchiano l’assioma per cui ogni sogno è “l’appagamento di un desiderio”, circa il trattamento di questi casi clinici Freud propone una cura pluridimensionale ove accanto a sedute di psicoanalisi si alternano interventi che oggi definiremo psicoeducativi e non viene escluso l’uso dell’ipnosi. Una sorta di intervento integrato che anticipa quanto oggi proposto nei disturbi post-traumatici e nei pazienti borderline.  Circa la genesi traumatica delle nevrosi, in particolare dell’isteria, vale quanto ho detto prima, la psicoanalisi ha a lungo considerato il trauma come un tabù. Inoltre ancora oggi vi sono difficoltà da parte degli analisti a riconoscere su certe cose il primato dei geni rispetto all’esperienza. Il riferimento è ovviamente alla dissociazione che è una difesa psicobiologica innata, presente anche in molti altri primati e che ha la funzione di coprire con amnesia la rappresentazione dell’evento traumatico.

Le considerazioni di Freud sul danno strutturale e indelebile che il trauma produce, non solo sono valide, ma dovrebbero metterci in guardia da illusorie spinte contro-transferali salvifiche. .Tuttavia la terapia può essere d’aiuto nella gestione degli esiti dissociativi. Quello che Anna Nicolò ci insegna è, a mio avviso, il fatto che sebbene la psicoanalisi non disponga di una teoria adeguata alla comprensione del trauma essa sul piano empirico ha strutturato, forse inconsapevolmente, una pratica terapeutica efficace, ove trovano spazio il riconoscimento, l’accettazione e la modulazione.

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