Maggio 1978: La legge 180, una vicinanza scomoda, una rivoluzione culturale, sociale e sanitaria che ancora incuriosisce il mondo intero.
Vincenza Quattrocchi, Psichiatra Psicoanalista (membro ordinario SPI). Già Direttore DSM ASL 11 Regione Toscana Empoli
Il titolo esprime in sintesi ciò che, in base alla mia esperienza, è stato quel momento e ciò che ancora vuol dire.
Apparentemente la legge arrivò improvvisa dall’oggi al domani, ma in realtà c’erano tutte le premesse affinché ciò divenisse una realtà, il clima culturale da anni si esprimeva attorno alla messa in discussione delle istituzioni e certamente un uomo, un medico, uno psichiatra, Franco Basaglia (“..i manicomi non si cambiano si distruggono”), è stato una geniale espressione dell’epoca. Mi colloco nella storia dei servizi toscani da me raggiunti nel 1976, dopo una breve ma intensa esperienza emiliana presso un Centro che si era costituito, fondando le sue basi sui presupposti del movimento basagliano di quei tempi.
Gli ospedali Psichiatrici negli anni avevano perso ogni funzione terapeutica e le pessime condizioni dei ricoverati erano il frutto della collusione tra gli aspetti più peculiari della psicosi e la mancanza di intenzioni terapeutiche che potessero modificarli. Da anni le loro porte si erano aperte all’esterno e gruppi di giovani volontari affiancavano gli operatori, era un popolo vivace, in linea di massima scevro da specifiche competenze, ma era lì a risvegliare speranze sopite e coscienze addormentate.
Da giovane psichiatra in formazione, mi trovai direttamente coinvolta nelle nuove sedi per le cure psichiatriche e pur avvertendo il clima teso che aveva determinato l’improvviso cambiamento, capivo che quella strada era importante per modificare nella sua complessità la risposta alla malattia mentale. Fu chiaro che il cambiamento fondamentale della nuova legge stava, sì, nel delegittimare i manicomi come luogo di cura (nessuno che non fosse mai stato ricoverato in Ospedale Psichiatrico, poteva essere ricoverato in quel luogo) ma soprattutto il concetto di pericolosità per sé e per gli altri veniva scorporato, almeno sulla carta, dall’essere considerati bisognosi di cure. La lotta al pregiudizio sociale inizialmente impegnò molte delle risorse di chi lavorava in quegli anni. Ci furono momenti confusi, alcuni scambiarono la lotta all’istituzione manicomiale con la negazione della malattia mentale e questa sorta di cancellazione sembrava essere un altro affronto. Togliere alla tutela repressiva dell’istituzione psichiatrica tradizionale la malattia psichica non poteva significare non riconoscere i tratti distintivi e specifici di questa, ma al contrario, comportava un più approfondito riconoscimento non solo della sua natura ma della molteplicità delle componenti biologiche, psicologiche e sociali che la determinano.
Il cambiamento legislativo trovava, in effetti, in alcune realtà italiane già l’esistenza di quei servizi territoriali ambulatoriali, precursori degli odierni Centri per la Salute Mentale sorti tra gli anni ‘60 e gli anni ’70. Nell’Ospedale Psichiatrico di Firenze ogni reparto corrispondeva a una zona della città o della Provincia e sia i pazienti “lungodegenti” che quelli che si ricoveravano in caso di riacutizzazione erano curati nei reparti di territoriale appartenenza dell’OP. Quelli che allora erano gli ambulatori territoriali si rivolgevano ai pazienti dimessi dall’OP, che vi si ricoveravano in fase acuta ma che, dopo il ricovero, ritornavano a casa con il sostegno degli specialisti presenti in territorio. Questi ambulatori erano al servizio anche di qualche cittadino che sceglieva, per indigenza o per fiducia, di rivolgersi al servizio pubblico. Oggi i servizi territoriali vedono, invece, l’accesso di tanti fino al rischio di saturazione e sono la sede più idonea per la presa in carico delle situazioni più complesse dal punto di vista clinico.
Il ricordo di una paziente storica dell’OP Vincenzo Chiarugi a San Salvi, descrive effettivamente come, chi stava ancora dentro, per solitudine o gravità, considerava i nuovi luoghi della cura.
G., legata con doppio filo all’ambiente manicomiale dove trovava la possibilità di esprimersi in quell’oasi che era il laboratorio della Tinaia dipingendo e scrivendo poesie, usciva dall’OP come molti altri pazienti durante il giorno, per rientrare la sera. Nel corso di queste escursioni cittadine, veniva spesso a trovarci nel nuovo reparto psichiatrico per diagnosi e cura di Santa Maria Nuova. Avevo l’impressione che un colloquio con il medico di guardia, un caffè con gli infermieri, per G. significasse riattualizzare un rapporto terapeutico come se pensasse che ormai le cose migliori, fossero offerte solo nei nuovi luoghi della cura. Le sue visite mi facevano pensare che quello era il suo modo per rigenerarsi e affermare un’esistenza e per noi un modo per mantenere un legame con il passato e preservare il rispetto, laddove è sempre acuto ciò che può sembrare cronico.
Tutto quello che avvenne dopo, nel corso degli anni, fu a mio parere un’escalation interessante che appassionò molti di noi e che spaventò coloro che si collocavano con difficoltà nel cambiamento. Il luogo della cura non poteva più essere identificato con la cura stessa. Se la soggettività del paziente s’imponeva nelle nostre menti, il dialogo in corso con il paziente richiedeva un costante dialogo con noi stessi e, quello quotidiano tra ciascuno di noi e il Gruppo di lavoro. Tutto era affidato alla professionalità del singolo professionista e del gruppo di lavoro. La metafora che immaginai allora, non ha perso ai miei occhi la sua validità, eravamo noi, i mattoni virtuali di un mobile e osmotico luogo di cura. Dalla tradizionale diade, medico/infermiere, passammo sempre più alla multidisciplinarietà con l’incremento di psicologi, educatori, assistenti sociali, portatori di altro sapere. Diventammo, noi stessi, oggetto di cura e di continue verifiche, percorsi analitici, supervisioni, formazione di gruppo e in vari ambiti della clinica. Hic sunt leones ?
Superate le prime grandi e comprensibili difficoltà dei familiari che si organizzarono come Associazioni, desiderando che sulla riforma ci fosse un ripensamento, il contributo delle famiglie divenne fondamentale e nelle situazioni migliori, costituì una grande risorsa per il riconoscimento dei diritti. La famiglia, non più una controparte, ma piuttosto, ora, soggetto di cura, ora partner nel percorso terapeutico del familiare. Sulle ceneri della passata ergoterapia, proprio perché nulla si crea dal nulla, si riformularono strategie riabilitative sempre più elaborate (teatro, scrittura, lettura, sport, musica etc.) strade, altre, per affinare strumenti di cura rivolti a persone interdette da un congelamento emotivo, strade da condividere con gli operatori coinvolti all’interno di uno spazio ludico, espressivo e nello stesso tempo terapeutico. La cura psicodinamica verso l’equipe, si sviluppò in quella che Stefano Bolognini definisce la Psichiatria silenziosa, che operosamente, mentre all’esterno proclamavamo i diritti dei pazienti psichiatrici, favoriva occasioni importanti di conoscenza e di studio delle relazioni umane e delle strade complesse per arrivare alla formulazione di una diagnosi. La ricerca di evidenze cliniche aldilà delle apparenze sintomatiche.
Contemporaneamente l’apporto del modello sistemico relazionale, ha chiarito ed evidenziato aspetti fondamentali della comunicazione tra esseri umani soprattutto in ambito familiare e transgenerazionale, permettendo una decodifica di alcuni comportamenti e quindi la loro de-colpevolizzazione. Ho trovato e in seguito, favorito nei lunghi anni del lavoro presso il Servizio Sanitario Nazionale, momenti collettivi di formazione psicodinamica che si ispiravano a Fornari, Gaddini e senz’altro alla scuola di Pichon-Riviere e Bleger, esemplare per lo sguardo rivolto all’istituzione, intesa come il terzo elemento e come oggetto di studio. Era quella la strada per fornire al gruppo di lavoro, dall’operatore socio sanitario, al terapeuta più esperto, elementi di conoscenza sulla relazione di cura ed elementi di conoscenza e di riflessione sul transfert multiplo. L’istituzione offre al paziente la possibilità d’essere rappresentato nella sua complessità attraverso la mente degli operatori che lo incontrano anche e soprattutto, in momenti di vita condivisa.
Molti psichiatri/ psicoanalisti, in ambito nazionale e non, hanno fornito negli anni, chiavi di lettura, occasioni di approfondimento, elaborazioni teoriche, e soprattutto hanno offerto generosamente se stessi, come supervisori ai gruppi di lavoro. In supervisione ogni operatore può sentirsi soggetto e oggetto di cura nel silenzio della sua intimità, pur essendo in un gruppo e parte di esso.
In questi lunghi anni dell’applicazione della 180, pur venendo chiamati ad affrontare continue emergenze, ho trovato essenziale l’approccio che definirei “del rovescio” che si basa sulla comprensione del sistema difensivo del paziente rispetto ad una mera descrizione del fenomeno psicopatologico, approccio fondamentale sia per affrontare le situazioni acute che per il trattamento più a lungo termine. Laddove il rispetto della necessaria distanza è piuttosto espressione di quella vicinanza emotiva che pone le premesse per la nascita di un’alleanza terapeutica anche con i pazienti più gravi e più difesi.
L’istituzione manicomiale aveva invece prodotto un’alleanza perversa tra la trasandatezza e l’oblio del luogo, il sistema difensivo del paziente e le caratteristiche psicopatologiche del disturbo. Un’alleanza che aveva determinato la cronicità tanto deprecata. Ma certamente, l’assenza dell’Ospedale Psichiatrico e il nuovo modello di cura non potevano metterci al riparo dalla cronicità stessa, laddove spesso, misconosciuta, si verificava e si verifica nell’ambito della relazione terapeutica. Quando è possibile riflettere su tutto questo si fa la differenza!
Tutti sappiamo che effettivamente i manicomi furono chiusi definitivamente, molti anni dopo e che il percorso per l’applicazione della legge è stato, e forse ancora è, molto difforme in ambito nazionale, ma per quanto tutto ciò possa ancora sollevare delle critiche, penso che la legge sia stata un’occasione per modificare il pregiudizio sulla malattia mentale e per consentire opportunità di cura più complesse e ricche rispetto al passato. Si pensi, oltretutto, che la ricerca in ambito della psicofarmacologia in questi anni è stata sviluppata con l’obiettivo di ottenere efficacia con minor danno. Ho visto ripartire la vita di molti giovani pazienti, riportati a esistere e a stare nel mondo partecipi, ho visto situazioni dove ci sono stati pochi cambiamenti ma la vita di queste persone è stata comunque più “decente” che in passato.
Solo da poco, a quarant’anni dalla legge, sono stati chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, un atto troppo rimandato ma assolutamente dovuto, sia dal punto sanitario, che dal punto di vista sociale e umano. Leggere La prima verità il libro denuncia di Simona Vinci sul manicomio dell’isola di Leros, la vergogna d’Europa, il cui smantellamento iniziò solo negli anni ’90, mi ha fatto riflettere sui i meccanismi psicologici e umani che portano a escludere, trascurare e dimenticare i più fragili. E’ bene ricordare che sono sempre pronti a manifestarsi anche dietro apparenti buone intenzioni terapeutiche.