La soggettività degli ultimi e l’esperienza torrentizia della 180
Giuseppe Saraò, psichiatra, psicoanalista, membro ordinario SPI, presidente Centro Psicoanalitico di Firenze. Già responsabile Servizio Salute Mentale Adulti Quartiere 2, Firenze.
La legge 180 e il pensiero di Basaglia hanno rappresentato una rottura dalla quale è nata un’esperienza complessa, fatta di luci e di ombre. Una profonda trasformazione non solo della assistenza psichiatrica ma anche della cultura della società: qualcosa di profondamente nuovo che oggi possiamo indicare, senza cadere nella retorica, come la ricerca e la costante valorizzazione della soggettività dei nostri pazienti. L’esperienza di rottura della 180 è stata un’onda lunga che ha travolto la fortezza del manicomio partendo dagli ultimi, i più matti, i più poveri, spesso dimenticati: tutti quei pazienti su cui la psichiatria ufficiale si dichiarava impotente. Pazienti gravi e fortemente regrediti che avevano perso la dignità di esseri umani e che proprio nei sintomi, nelle stereotipie e bizzarrie portavano incisi sul proprio corpo i residui di una soggettività che si manifestava, protestava e resisteva; occuparsi di questi pazienti dimenticati significava valorizzare quel che rimaneva della loro umanità, era un atto di accusa alla cultura medica di quel tempo che colludeva con il pregiudizio producendo stigma e separatezze.
In un periodo storico in cui si parla di umanizzazione della medicina, riflettere sull’esperienza attuale e storica della salute mentale è un’opportunità di conoscenza che rimanda allo sviluppo della organizzazione sanitaria degli ultimi 40 anni in Italia (la legge 180 è strettamente correlata alla riforma sanitaria del 1978!).
Ho avuto la fortuna di far parte di quella generazione di psichiatri che si formava tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. Ricordo che frequentare l’ospedale psichiatrico di San Salvi di quei tempi fu un’esperienza incredibile: un mondo a parte, un misto di violenza, esperienze di vita abortite, esistenze che si erano interrotte e che poi avevano ritrovato nel mondo asilare un posto, una sorta di adozione istituzionale: penso, per esempio, a quei ricoverati che fungevano da aiutanti degli infermieri a complemento delle funzioni logistiche della piccola città manicomiale. Altri pazienti invece raccontavano, con la deformazione del corpo, con le stereotipie del comportamento, l’annichilimento istituzionale: una sorta di resa disperata, un gridare che rimaneva inascoltato, un linguaggio alieno che nessuno riusciva a decifrare. Ricordo l’insopportabile odore degli escrementi, persone incollate ai muri e ai radiatori in una sospensione del tempo e della vita. E ancora, tanti pazienti insieme.
Un’umanità dolente: le visite con il direttore erano un tour nella pancia del manicomio con i tanfi e le inevitabili visioni di mostruosità, un chiudere e aprire di porte, uno sferragliare di chiavi. Caposala ossequianti, infermieri che si affaccendavano per mettere ordine, nel tentativo vano di riportare una parvenza di cura. Era impossibile fare una raccolta delle urine, difficilissimo ottenere un vitto speciale, arduo persino misurare la pressione arteriosa: si era perso il senso del curare. Ma accanto a tutto questo c’erano operatori che lavoravano con passione: il manicomio era una sorta di fabbrica disarticolata non priva di gesti di solidarietà. Penso all’esperienza della Tinaia, un laboratorio già in funzione dall’inizio degli anni 70, dove pazienti e operatori lavoravano alla pari in completa libertà, in una dimensione in cui prevalevano la solidarietà e il rispetto del gesto e dell’opera del paziente. C’erano medici e operatori che inventavano nuovi progetti, che si adoperavano per osservare i comportamenti e la psicopatologia dei pazienti, che mettevano in relazione il manifestarsi della psicopatologia con le visite dei parenti, che non attendevano semplicemente gli effetti degli psicofarmaci. C’era una comunità di operatori che mi sembrò molto confusa ma anche piena di vita.
Alcuni di questi operatori tentavano proiezioni territoriali: c’erano una netta scissione e pesanti scontri fra chi si batteva per “andar fuori” e chi si ostinava a preservare il fortino nell’attesa di una imminente controriforma. Tutto questo contrastava con le desolanti e spesso ingiallite note delle cartelle cliniche, dove l’accento era sul peso, sulla temperatura, sulla terapia farmacologica, sugli esiti degli elettroshok. Difficilissimo in quel contesto mettere insieme la storia di un paziente se era da tempo istituzionalizzato, anche perché c’era in troppi operatori un’insopportabile rassegnazione, un accettare la delega sociale del custodire e del controllo sociale rispetto al curare e conoscere l’altro.
Scene e passioni forti. Sappiamo come sono andate le cose: una riforma male applicata, a macchia di leopardo, tante esperienze, alcune eccelse, molte altre da dimenticare.
Nel pensiero di Basaglia c’erano radicalità che oggi sono incomprensibili se non si tiene conto del periodo nel quale sono nate; c’erano delle forzature, per esempio quando si diceva che la malattia mentale era prodotta fondamentalmente dal manicomio e dall’esclusione sociale e ancora che la rivoluzione psichiatrica avrebbe conquistato il resto della medicina (qualcuno osava dire della società!).
La rivoluzione vera invece è stata sul tema della soggettività; dei pazienti, delle famiglie, degli operatori. Per gli operatori “andar fuori” in maniera cosi traumatica e poco protetta dall’istituzione comportò un violento confronto con la realtà psichica dei pazienti: non bastava essere disponibili. La psicosi aveva bisogno di una funzione istituzionale moderna, non solo nell’organizzazione dei servizi ma soprattutto nella formazione degli operatori. Affrontare il dolore mentale del paziente, fuori dalle mura del manicomio, comportava una vicinanza emotiva non sempre sopportabile attraverso i generosi vissuti di familiarità; né poteva bastare una brutale medicalizzazione dei sintomi (psicofarmaci).
Nelle pieghe dei servizi gli operatori si sono dovuti attrezzare, ad esempio facendo un proprio percorso di cura e riflettendo sulla propria storia personale. Sono stati costretti a lavorare in equipe, perché affrontare un problema complesso come la malattia mentale necessitava di un gruppo di cura: non bastava la competenza del singolo professionista. Inoltre i servizi si sono dovuti confrontare con i diritti dei pazienti (legge 180) che ha ridotto positivamente il potere del tecnico e del relativo controllo sociale rispetto alla terapia e al diritto di essere curati nel proprio ecosistema di vita. Gli operatori hanno dovuto guadagnare potere ed efficacia terapeutica attraverso le competenze e non semplicemente per un mandato sociale.
La cultura della salute mentale di comunità rinvigorita, negli anni, dagli apporti provenienti dai saperi della medicina, della psicopatologia e della psicodinamica, grazie al lavoro di tanti colleghi ha conquistato nel panorama internazionale un rilievo significativo; operatori di paesi molto avanzati (come Inghilterra, Germania, paesi scandinavi..) vengono da noi per capire come abbiamo fatto a superare il manicomio e creare dei servizi di comunità moderni. Chi sceglie di lavorare in un nostro servizio può affrontare situazioni cliniche complesse e gravi in un contesto di comunità ricavandone grandi soddisfazioni: trova una finestra sull’umanità, qualcosa che è difficilmente comparabile all’attività artigianale del proprio studio di professionista. Naturalmente i problemi non mancano e vanno ricercati nelle difficoltà crescenti rispetto alle risorse e alla crisi dello stato sociale che deve affrontare sempre di più fenomeni di deriva sociale e malessere personale nella società in cui viviamo.
Negli ultimi anni si sono sviluppate forme di terapie orientate alle famiglie, si sono evidenziate le grandi possibilità terapeutiche che si possono sviluppare attraverso un lavoro sistematico con gruppi di pazienti e di familiari. Ma quella che è cresciuta in quarant’anni è la dignità professionale degli operatori, non sempre premiata da un riconoscimento istituzionale delle aziende sanitarie. C’è una cultura diffusa, un corpo di conoscenze e una saggezza del saper fare di grande complessità: ai luoghi della psichiatria non si rivolgono, da tempo, solo i “poveri” come avveniva in passato; i livelli di violenza istituzionali sono nettamente ridotti; c’è un’attenzione alla dignità dei pazienti impensabile 20 o 30 anni fa, si pone cura all’accoglienza istituzionale e a come articolare i differenti setting terapeutici. Gli operatori hanno imparato a segnalare i propri limiti terapeutici evitando di assumersi acriticamente la delega del controllo sociale. Sempre di più affrontano il tema dei legami familiari e sociali e leggono la sofferenza e i relativi sintomi come una malattia delle relazioni; operatori che cercano di stare anche nelle relazioni e nei transfert pesantemente proiettati e attivati con i quali si devono confrontare.
Altro tema centrale sono le famiglie: dopo tanti anni di polemiche, le famiglie rappresentano, spesso attraverso specifiche associazioni, una potenzialità di conoscenza per i servizi. Non è stato sempre così: uno degli orientamenti radicali, fortemente ideologico, del pensiero di Basaglia era proprio lo schierarsi sempre e comunque dalla parte del paziente, l’operatore era supporto a una soggettività deficitaria, mentre la famiglia diventava la controparte, l’avversario. Uno scontro di poteri nel quale non c’era posto per la sofferenza dei familiari. Negli anni è maturata invece una cultura psicologica dello sviluppo della mente umana e dei legami familiari in cui è diventato centrale, nel progetto terapeutico, il sostegno alla famiglia in crisi di fronte ai gravi disturbi mentali.
Si può decisamente affermare che il lavoro e l’esperienza nei servizi di salute mentale ha evidenziato come nel tempo si sia trasformata la psicopatologia dei pazienti e delle relative famiglie non solo per i naturali cambiamenti socio-culturali ma anche per la rivoluzionaria organizzazione dei sistemi di cura: certe espressioni psicopatologiche che prima si osservavano comunemente in ospedale psichiatrico (basti pensare alla catatonia o agli arresti psicomotori melanconici) sono eventi molto rari e gli psichiatri che si formano oggi hanno, per fortuna, difficoltà a fare esperienza di destrutturazioni tanto devastanti della mente e della condizione umana.
Penso che riconoscere questi profondi cambiamenti possa costituire un omaggio affettuoso al pensiero e all’opera di Franco Basaglia e a tutti quegli operatori che negli anni hanno immesso, nel loro lavoro, passione e impegno civile nella difesa dei valori della legge 180.