Testo della relazione di Luigi Boccanegra presentata al convegno “Il pensiero di Giovanni Hautmann”.*
Firenze, sabato 19 maggio 2018
*Chi scrive ha cercato di mantenere allo scritto il carattere conversativo che ha avuto l’incontro, in sintonia con il contributo delle testimonianze riportate. Devo ai contributi riferiti poi nel corso della mattinata da A.Marzi, N.Landi e A.Suman il fatto di essermi chiarito meglio le settimane seguenti e di essere stato in grado di scrivere quanto avevo esposto “a braccio” per l’occasione. Il testo non contiene un aneddoto di carattere “migratorio” raccontato in chiave anti-leghista sul tema caro alla scolastica medioevale dei quattro trascendentali (il bello, il buono, il vero, il giusto). Espresso nel lessico dialettale degli infermieri aveva senso soltanto se comunicato al momento in quella sede (Educatorio del Fuligno).
“La parola è per metà di colui che parla…”
(Jean Starobinski, Archinto, 2013).
Vi ringrazio molto perchè è un grande onore per me essere stato invitato ad intervenire con un contributo personale in un’occasione così vostra come questa di oggi. Ho con me un corpo di appunti più che un testo scritto, e dunque come prevedevo saranno le cose che ho ascoltato fino ad ora a farmi decidere su come proseguire.
Ho il presentimento che l’Educatorio del Fuligno come sito stia assumendo il carattere di un cronotopo (C.Ossola-M.Butor, Conversation sur le temps, ed.La différence, 2012), cioè uno di quei “luoghi a venire” che non fanno parte soltanto del passato perchè riescono a congiungere in un’ora prestabilita, che si può sperare sopraggiunga, “i frammenti dispersi di momenti e di luoghi che prima erano come disseminati”, con cui la memoria restituisce ai vincoli coltivati per anni la loro interezza.
Per esempio l’accostamento iniziale fatto dall’Assessore tra la bellezza di Firenze e quella delle persone che possono abitarla, come appunto Giovanni Hautmann, ha contribuito a definire dall’inizio la configurazione dello scambio interiore con voi già intrapreso in queste ultime settimane.
Ora essa si situa più chiaramente sul crinale tra cittadinanza e mondo interno, assumendo i caratteri di una variante di valico (che andando avanti sarà anche geografica), che mi suggerisce di rimanere sulla soglia che prediligo: tra pre-verbale e verbale.
Infatti parlando di Giovanni Hautmann si tratta di far in modo che l’esposizione mantenga l’andatura effettiva del pensiero nell’atto stesso del suo formarsi. Solo così mi sembra di corrispondere in modo dovuto (Starobinski) a quell’impatto materico (“tattile”, avrebbe detto B.Berenson) con la sensorialità emergente che Hautmann era in grado di praticare e cercava di trasmettere, sia quando prendeva in considerazione il materiale della seduta che quando interveniva nel corso di una ricostruzione del caso clinico in gruppo (Rcg).
Credo che l’incomprensione più profonda del suo operare sarebbe quella di dividere questi due momenti come se appartenessero ad aree diverse della sua mente.
Sarà proprio su questo aspetto materico-sensoriale che in Hautmann rimane secondo me irriducibile alla soggettività trasformativa, che cercherò di soffermarmi accennando a quella che considero la ricezione più rigorosa e di più lunga data del pensiero di M.Klein prima e poi di W.Bion nel contesto della psicoanalisi italiana.
Anche se non sono in grado di esporre oggi in modo esauriente questa tesi.
Per ora mi limiterò a dire in modo schematico che Hautmann, concependo la natura profondamente inclusiva della relazione originaria (M.Klein, D.Meltzer, M.Harris, S.Resnik, F.Tustin, A.Alvarez) non aveva una concezione paranoide del mondo esterno (gnosi). Secondo me la sua visione riproponeva continuamente il compito di individuare lungo il percorso dello sviluppo i confini tra la sensorialità da ascrivere alla “soggettività in formazione” che ripetutamente si spaia e la moltitudine di elementi conglomerati della diade originaria “nei quali” essa si trova da sempre disseminata (Bion, Elementi della psicoanalisi, trad.G.Hautmann, ed.Armando, pag.108).
Vista l’istituzione che ci ospita, direi che si tratta di un’educazione all’ascolto “con tutti i sensi”, cioè un modo di sentire la materia come qualche cosa che non é soltanto “là fuori” nel mondo, ma che ci appartiene profondamente attraverso la nostra corporeità concepita come fosse intrisa dei suoi stessi dintorni (M.Merleau Ponty). Concezione che risale alla filosofia della natura del Rinascimento (S. Carannante: Giordano Bruno e la caccia divina, Ed. della Normale, 2013).
Per quanto riguarda la psicoanalisi italiana questa concezione porta a riflettere se la successiva assimilazione del pensiero di Bion sia avvenuta in modo a dir poco vorace negli ultimi decenni del Novecento, prima ancora che la psicoanalisi kleiniana venisse compresa in profondità (M.Spira, D.Meltzer, F.Tustin, G.Hautmann, P. A.Lussana, I.Generali Clemens, M.Morra, D.Vallino Macciò) e quindi se oggi ci si chieda giustamente se il suo pensiero abbia favorito una maggior integrazione tra psicoanalisi e psichiatria o abbia contribuito ad allontanarle ulteriormente (A.Correale).
Con questo proposito riprenderò alcuni termini affiorati nella conversazione di ieri sera tra amici, mentre eravamo ospiti di Stefania Nicasi: dicevo che mi sarei soffermato sull’interminabilità riparativa nei confronti dei “maestri”, accennando a quelle che Bion definisce le “personificazioni ancillari“ della notazione (lungo la linea C della Griglia, in Attenzione e Interpetazione, Armando, pag.44). Allo stesso modo cercherò di affiancare Paolo Meucci, in riferimento a quanto ci ha appena detto della sua relazione umana e professionale con G.Hautmann e poi Pippo Saraò quando nella sua introduzione ricordava lo scritto di Freud sulla Fugacità, che la tradizione ci ha confermato essere la descrizione di una passeggiata in montagna con il poeta R.Maria Rilke.
Paolo Meucci, come dirò tra poco, mi ha ricondotto alla generosità con cui mi sentii accolto da Hautmann nel periodo in cui venivo a Firenze per il training. Mentre Pippo Saraò mi ha spinto inaspettatamente più indietro fino all’inizio dell’analisi personale con Salomòn Resnik, facendomi ricordare il tragitto che percorrevo ogni settimana partendo da Venezia diretto a Parigi, con il treno che attraverso il Sempione raggiungeva prima Ginevra e poi il territorio francese.
Allora un diverso modo d’intendere l’epitaffio che Rilke ha voluto sulla sua tomba nel piccolo paese del Vallese dove è sepolto (Rarogne, poco dopo Briga), mi permetterà indirettamente di fare un confronto tra due orientamenti nella ricezione dell’opera di Bion avvenuta nel nostro paese, dato che essa a tutt’oggi oscilla in maniera antinomica tra l’enfasi di un onirismo pervasivo imperniato sul concetto di révérie (A.Ferro) e l’ esigenza di un’assiomatica scientifica (F.Riolo).
La differenza nel modo di intendere l’epitaffio è documentata dalle lettere che su Rilke si sono scambiati in proposito due poeti di lingua francese entrambi grandi traduttori dei classici (Correspondance, Les Belles Lettres, 2018): Yves Bonnefoy traduttore di Shakespeare e dell’Infinito leopardiano, e Philippe Jaccottet di origine svizzera, traduttore di Omero e di Ungaretti.
Due autori, entrambi amanti del paesaggio toscano e della vostra città.
La frase che ho riportato all’inizio dello storico delle idee ginevrino Jean Starobinski: “La parola è per metà di colui che parla..” farà da filo conduttore alla mia argomentazione, in modo che il contributo della genealogia analitica non rimanga sacrificato nel dibattito tra la poetica della cura e il rigore dell’osservazione scientifica. Credo di poter dire che, a differenza di Hautmann, molti degli interlocutori italiani attuali sostenitori delle idee di Bion, sul loro debito effettivo nei suoi confronti non abbiano ancora scritto.
Terminerò il mio tragitto transalpino con una poesia del poeta italiano Vittorio Sereni (da Stella variabile, Einaudi, 2010, pag.66) che in poche righe coglie l’effetto trasformativo che ha sul soggetto “la voce delle personificazioni” che dicevo, quando affiorano alla mente come un sussurro interiore che varcando la soglia tra preverbale e verbale ci aiutano a raccoglierci intorno alla parola del linguaggio comune (P. Donatelli, Il lato ordinario della vita, il Mulino, 2018).
Al primo momento, quando Pippo Saraò e Paolo Meucci mi hanno contattato per questo incontro avevo detto: “che bello!” con una certa incoscienza. Poi vedendo la cosa più da vicino mi sono persuaso che sarebbe stato un compito impossibile, indipendentemente dal tempo che avrei avuto a disposizione.
Gradualmente mi rendevo conto della quantità e varietà di elementi affettivi e professionali che avrei dovuto raccogliere per darvi l’idea di quello che era stato il mio “sodalizio a distanza” con un maestro della psicoanalisi italiana interessato al pensiero kleiniano, iniziato alla metà degli anni settanta quando ero giovane Candidato della SPI.
Il termine “sodalizio” in questo caso fa riferimento a quelle relazioni continuative nel tempo che nutrite di letture comuni anche quando son passati degli anni tra un incontro e l’altro, si riproducono in modo tale da riprendere là dove ci si era salutati. In questo caso la loro verticalità iniziale, benchè si orizzontalizzi gradualmente nel tempo, conserva un carattere germinativo che la memoria contribuisce ad alimentare come se la complementarietà che si è raggiunta in certi momenti fosse inesauribile. Ma dirò di questo più avanti. Per ora direi che sono relazioni che hanno fatto dell’interiorizzazione della “transitorietà” di cui parlava poco fa Saraò, la loro impronta.
Le settimane scorse, il contatto con Paolo Meucci è stato importante perchè mi ha tenuto informato sul contenuto degli altri contributi per cui, sapendo che sarebbero intervenuti Andrea Marzi (sull’aspetto teorico), Nerina Landi (sull’infantile) e Antonio Suman (sui gruppi Balint), ho pensato che voi, avendolo conosciuto più da vicino vi sareste soffermati meglio di me sulla sua persona e sulla sua opera e di potermi concentrare così sulla cornice genealogica più esterna e in un certo senso più remota della sua attività. Mi sembrava che in questo modo, facendo un passo indietro avremmo guadagnato in prospettiva sui modi di intendere la cura, contando sul fatto che la elaborazione del lutto nei suoi confronti ci avrebbe aiutati nel distinguere meglio limiti e meriti degli interlocutori “post-bioniani” attuali.
Tuttavia vi dico ugualmente come mi sarei orientato in quel caso e perché.
Se avessi dovuto scegliere un punto da cui partire della sua opera avrei scelto i “Seminari analitici di gruppo” raccolti da A.Brignone che mi fa piacere ricordare, partendo però dal comparativismo letterario di Hautmann, cioè dal suo commento al racconto “Fratelli” (di Carmelo Samonà) che ho sempre considerato uno dei suoi scritti non solo più belli ma più aderenti sul piano dell’osservazione alle transazioni emotive ravvicinate che intervengono nei momenti in cui ci si trova ad oscillare tra turbolenza emotiva (Bion, ora in Seminari clinici, Cortina, 2013) e ricerca dell’unisono.
Secondo me in quel lavoro Hautmann riesce a capovolgere il solito metodo applicato anche dagli psicoanalisti kleiniani alle opere letterarie (vedi lo studio di F.Fornari sul racconto “Agostino” di A.Moravia), facendo piuttoto l’inverso, cioè se così si può dire “applicando” la letteratura alla psicoanalisi (P. Bayard, Peut-on appliquer la littérature à la Psychanalyse?, Minuit, 2004).
Nel suo modo di “ascoltare con tutti i sensi”, anche nei confronti del testo scritto, Hautmann si serve del lessico metapsicologico kleiniano ma per osservare meglio l’aspetto incipiente dell’ azione, cioè cogliendo i conati ancora inespressi nell’area ravvicinata di una diade dai tratti ancora indivisi (eco-mimesi) nel momento in cui sta per spaiarsi.
L’attenzione del lettore si concentra allora di più sull’area dei presentimenti e delle aspettative reciproche per cui emergono le eco-prassie e le eco-lalie (linguaggio dell’effettività, in Bion) tra i due protagonisti a contatto, più che la duplicazione trascrittiva (linguaggio di sostituzione, in Bion) che sovrapponga al testo letterario un linguaggio di codice già prestabilito in partenza.
Mi pare di poter dire che anche gli ultimi studi in questo campo di A.Green, che confermano come J. Conrad (2008) ed H. James (2009) fossero con Shakespeare i suoi ispiratori prediletti, non raggiungano il medesimo rispetto che Hautmann dimostrava di avere per i singoli enunciati del testo letterario, esaminandoli frase per frase, sottoponendoli si potrebbe dire ad una visione “stereoscopica”, tenendo conto di una predisposizione di famiglia (Anton Hautmann “Firenze in stereoscopia”, G.Fanelli, Octavo, 1999).
In questo modo, come si vede anche nei casi raccolti da A.Brignone (vedi il caso di Fiorenza, la paziente figlia di matematici, deprivata di un sapere storico), per la sua capacità di avere presente lo splitting primitivo nei diversi contesti, Hautmann era in grado di ristabilire una gemellarità originaria tra le due discipline, confermando quanto la stessa storiografia delle origini della psicoanalisi ci ricorda, quando sottolinea che Freud e Maupassant erano per così dire insieme “sugli stessi banchi di scuola” alle lezioni di Charcot.
Però sarei arrivato ai “Seminari analitici di gruppo” anche seguendo il suggerimento di J.B. Pontalis che negli ultimi anni si era soffermato molto sulla relazione fraterna (Le frère du précédent, Gallimard, 2006) come prototipo della relazione di passaggio dall’individuo al gruppo.
Il testo di Pontalis costituisce per me una prima conferma della frase di Starobinski riportata all’inizio, alla quale proporrei di attribuire un significato assiomatico perchè riesce a configurare questo passaggio delicato in modo fluttuante e reversibile, giocando sul fatto che la differenza di età tra i fratelli sia compatibile con un margine di permutabilità ludica.
Naturalmente dipende dal grado di maturazione relativa tra i due fratelli perchè, a seconda del loro sviluppo possono essere ancora bisognosi di esclusività diadica rispetto alla fonte genitoriale (in ambito familiare) o magistrale (in ambito professionale).
Quando invece la dose di predilezione raggiunge una soglia di individuazione adeguata con la conseguente gratificazione di sentirsi riconosciuti per quelli che si è effettivamente, si è grati di coincidere anche solo per una parte con i genitori o i maestri e la rivendicazione più estesa gradualmente si attenua.
Secondo Pontalis, se la diade fraterna dispone di una certa reciprocità, sia la diversità nei confronti dell’origine che nei confronti delle mete da raggiungere, permette di condividere una gamma più ampia non solo di frustrazioni ma anche di gratificazioni dato che ci si può identificare alternativamente a seconda del momento: ora con i privilegi dell’emancipazione raggiunti dal fratello “precedente”, ora con le potenzialità evolutive ritenute e ancora custodite dal fratello “che viene dopo”.
Nel corso della Rcg (ricostruzione del caso clinico in gruppo), ma direi che la cosa vale per ogni “gruppo di lavoro” (Bion) e quindi anche all’interno degli stessi Centri di Psicoanalisi, i benefici di relazioni “allargate” in questo senso sono osservabili sul piano clinico anche per esteso : per esempio tra piccolo gruppo impegnato direttamente nella presentazione del materiale clinico e la cornice più ampia dei colleghi presenti che intervengano in un secondo momento, senza aver conosciuto direttamente il paziente.
Starobinski a questo proposito parla di “Largesse” (Gallimard, 2007) proponendo una vera e propria rassegna iconografica della generosità, centrata sulle innumerevoli illustrazioni che nei secoli sono state date di figure che con il loro gesto di offerta sanno mettere mano al tempo che donano.
Dicevo però che ho preferito procedere diversamente perché a volte si pensa che Giovanni Hautmann fosse poco conosciuto all’estero, mentre io avevo sentito parlare di lui da Sàlomon Resnik, cioè fin dall’inizio della mia analisi personale, per il legame che aveva con la psicoanalista argentina Marcelle Spira, residente inizialmente a Ginevra, e anch’essa come Resnik allieva di Enrique Pichon-Rivière.
Allora della Spira evevo letto un lavoro che mi aveva colpito sul “Il tempo in psicoanalisi” (pubblicato nella Revue Francaise de Psychanalyse) e poi ero al corrente delle sue riflessioni “Sulla memoria e l’oblio”(uscite sulla Rivista Italiana di Psicoanalisi), cioè sul bisogno che ha l’analista di dimenticare, per cui quando uscì in francese il suo libro sulla creatività rendendola più nota (Créativité et liberté psychique, Césura ed.Lyon, 1985) lei faceva già parte degli autori che seguivo con attenzione.
Carla Zennaro, la collega di Padova (intorno alla quale si è poi raccolto il gruppo delle Patologie gravi “venete”) formatasi a Kreuzlingen presso la Clinica di L.Binswanger, mi ha confermato che in quegli anni la Spira veniva invitata da Egon Molinari anche al Centro bolognese. I meno giovani che ci sono tra voi ricorderanno poi il Congresso di Lingue Romanze di Firenze (1976) dove il testo della sua relazione (letta da F. Mori) figurava a fianco di quella di P.C.Racamier.
Ma non presumo di colmare da solo questo aspetto storico.
Merita però che mi soffermi sulla sua generosità, che ebbi modo di verificare sia nel corso del colloquio di selezione che durante la Supervisione, fino all’incontro milanese in Via Corridoni 1 per l’Associatura in cui Hautmann era presente. Ritengo sia giusto da parte mia sottolinearlo in questa occasione, tanto più che per farlo è sufficiente che racconti come sono andate semplicemente le cose.
Infatti, mentre ascoltavo Paolo Meucci che ripercorreva la biografia di Hautmann e la sua esperienza personale con lui, ricordavo come fu determinante per me il fatto di fare con lui uno dei secondi colloqui di selezione per far parte della SPI e poi la seconda supervisione (di training).
Dato che il mio analista non faceva parte del gruppo italiano, fu Franco Fornari come primo supervisore a suggerirmi di rivolgermi ad Hautmann, di cui mi era noto come apprezzasse il pensiero di Bion che Resnik aveva frequentato come supervisore a Londra, nel periodo in cui scriveva Trasformazioni.
Accettai il suggerimento di Fornari perchè come dicevo lo avevo già incontrato nei secondi colloqui di selezione ed avevo avuto modo di verificare la profondità del suo ascolto che in quel caso mi aveva procurato una micro-fissurazione sul piano associativo, proprio perchè mi aveva chiesto qualcosa del mio lavoro all’Ospedale di Giorno (Palazzo Boldù, a Venezia), argomento su cui allora credevo di potermi muovere con una certa disinvoltura.
Ho sempre pensato che mi avesse fatto quella domanda per aiutarmi, quindi per generosità, mentre in realtà le aspettative che in ambito psichiatrico si condividevano allora per le “strutture intermedie” e l’idealizzazione della psicoanalisi che mi aveva portato a chiedere l’analisi personale ad un analista di psicotici (allora residente a Parigi), fecero sì che nel corso di quel colloquio perdessi più di una volta il filo del discorso.
Dovete tener presente che agli inizi degli anni 70 le scienze umane permettevano di pensare, forse con qualche confusione e non solo per ingenuità, che la psicopatologia e la psicoanalisi potessero procedere di comune accordo nella trasformazione delle istituzioni psichiatriche pubbliche.
Era la convinzione che anche più avanti, partecipando alla “Commissione nazionale per le patologie gravi” (guidata da Antonello Correale e Luigi Rinaldi), ebbi l’occasione di riscontrare anche in altri colleghi più esperti di me nel campo delle psicosi, come Anna Pandolfi, Beppe Frangini e Giuseppe Berti Ceroni.
Questo non vuol dire che dopo mi sia pentito di quella predilezione per la psicoanalisi e per la scuola kleiniana in particolare, anche se dovetti ricredermi sulle possibilità che quel clima iniziale di fervida collaborazione potesse svilupparsi ed evolvere con continuità.
Fu proprio in quegli incontri itineranti della Commissione (che si riuniva di volta in volta in una regione diversa), che mi resi conto come variava l’ascolto reciproco tra i componenti del gruppo a seconda della familiarità con i luoghi in cui ci si incontrava e come i termini stessi del lessico psicoanalitico risuonassero per tutti diversamente, a seconda che fossimo dal punto di vista geografico più in prossimità o meno rispetto ai Centri della propria genealogia analitica.
A distanza di anni mi sembra di poter dire che da un lato la psichiatria andò incontro strada facendo ad una dicotomia (tra la psichiatria sociale o, come si diceva allora “epidemiologica” per darle una veste canonica, e le neuroscienze) che mi sembra duri tutt’ora, e dall’altro la psicoanalisi italiana preoccupata di non essere considerata sufficientemente rigorosa diventò, almeno al Centro Veneto, sempre più prevenuta nei confronti del lavoro in istituzione, concentrando il proprio contributo specifico, come avviene per le branche della medicina, sulle indicazioni alla cura e sul lessico specialistico.
Successivamente nella supervisione mi trovai più a mio agio con Hautmann che con Fornari, per l’attenzione che come Resnik anche lui riservava agli aspetti sensoriali del materiale, ponendo al centro “l’acuità percettiva” dell’analista che metta ogni volta in risalto il dettaglio significativo da cui partire per organizzare le congetture interpretative.
Bion in Evidenze (ora nei Seminari clinici, Cortina, 1989) distingue tra perspicacia e perspicuità (L. Wittgenstein) sottolineando che non si tratta soltanto di essere inventivi ma di riuscir a formulare le cose che si riescono ad intravedere, in modo tale da far vedere come si é giunti ad intenderle anche ad un altro.
Direi che Gabriela Gabriellini ha provveduto ad evidenziare egregiamente questa affinità tra Hautmann e Resnik organizzando alcuni anni fa alla Scuola Superiore San’Anna di Pisa il “Dialogo sulla gruppalità” (Felici Editore, 2010) permettendo ai partecipanti di poter ascoltare i contributi di entrambi e di partecipare alla loro discussione comune. Ricordo in quell’occasione gli interventi di Anna Ferruta e di Francesco Orlando.
Nel corso delle supervisioni questa affinità risultava evidente confrontando il loro metodo di lavoro con lo stile di Franco Fornari impegnato in quegli anni nel definire una “teoria psicoanalitica del linguaggio”, che lo portava ad assumere il kleinismo in chiave grammaticale, come se si potesse considerare tutta la comunicazione umana partendo da un unico codice simbolico generale da ritenere equivalente al codice genetico in biologia.
Infatti Fornari, per quello che risultò essere l’ultimo Convegno a cui avrebbe partecipato (se non fosse intervenuta improvvisamente la morte) aveva inviato a Giancarlo Trentini, organizzatore di quell’incontro universitario in laguna, un lavoro per il quale aveva coniato il neologismo “Bioria”.
Oggi c’è di che rimanere increduli, quando si parla tanto di “apertura” dei Centri psicoanalitici nei confronti delle altre istituzioni di cura o della cittadinanza in genere, se solo si ricorda che quel Convegno (“La qualità dell’uomo”, F.Angeli, 1988) prevedeva in prima giornata le due relazioni magistrali e il succesisvo dibattito tra Franco Fornari ed Emanuele Severino.
Forse è successo per la psicoanalisi kleiniana quanto è accaduto negli anni settanta per la “psichiatria di settore”, cioè quel gioco a scavalco che spesso caratterizza la nostra cultura dal punto di vista politico-organizzativo per cui, prima ancora di aver assimilato in profondità delle idee che possono costituire socialmente delle prospettive di progresso da realizzare concretamente, ci impossessiamo subito delle formule in termini retorici esaurendone le potenzialità programmatiche soltanto sulla carta.
A mano a mano che la mia relazione con Hautmann come supervisore si andava orizzontalizzando, prendeva forma l’invito successivo di venire a Firenze con regolarità come consulente per i Servizi Psichiatrici fiorentini, prima a Sesto e poi al S.Maria Nuova e al Villino Borchi, per interessamento di Giacomo Tessari e di Pippo Saraò.
Questo impegno prevedeva la consulenza anche per il Centro di salute mentale di Borgo Ognissanti che come immobile fa parte delle Case Vespucci, non lontane dal Cenacolo del Ghirlandaio. Poco lontano c’è anche la Libreria francese dove, durante il breve intervallo per un caffè, con Giacomo e Pippo facevamo una breve visita.
Chi ha pratica di Rcg. (ricostruzione del caso clinico in gruppo) sa che in quel breve intervallo si attivano i primi tentativi di traduzione elaborativa di ciascuno e i commenti informali tra i partecipanti, per cui si può dire che è il momento più favorevole per la “caccia divina” (della diade indivisa) cui accennavo all’inizio.
Infatti, essendo meno tesi e più sciolti, gli operatori aggiungono sul caso clinico dei dettagli ulteriori che per la loro coloritura e immediatezza dialettale spesso rinforzano le congetture associative in via di affioramento ideativo nei conduttori. Quando questo avviene ci si sorprende a scambiare dei frammenti del “puzzle” come fossero le metà che inizialmente mancavano (Starobinski).
In quei momenti noi non disponiamo della “chiave di trascrizione sconosciuta” (A.Green) che presiede all’elezione delle personificazioni intercedenti (solo un sogno in simultanea potrebbe…), ma siamo in grado di riscontrare le “con-occorrenze”, cioè le simultaneità che giustificano le nostre inferenze e che Bion definisce come “congiunzioni costanti” (Elementi della psicoanalisi, trad.Hautmann, pag.108).
Questa constatazione, che spesso in corso di routine ospedaliera si considera scontata ha trovato in Didier Anzieu la conferma ufficiale che meritava, a proposito dell’intensità che l’impatto emotivo determina nelle relazioni di cura.
E’ noto che Anzieu fosse interessato a poter disporre delle notazioni cliniche che Bion negli anni trenta aveva raccolto durante il suo rapporto terapeutico con lo scrittore irlandese S.Beckett.
Dall’editore Adelphi sono uscite recentemente tradotte in italiano le lettere dello scrittore dove si parla anche di quel periodo. Non credo che Anzieu abbia potuto accedere all’archivio della Tavistock. Posso però riferire qual’era il proposito di cui non faceva mistero, cioé che le opere in prosa che Beckett aveva scritto successivamente (Molloy, Malone muore, L’innominabile) fossero la prosecuzione del suo dialogo interiore con Bion dopo l’interruzione della cura.
Questo ad ulteriore conferma dell’assioma di Starobinski secondo cui anche se la diade indivisa che il transfert attualizza nel rapporto di cura prima o dopo si spaia, le tracce creative della relazione con l’oggetto originario proseguono nel tempo, come se la disposizione profonda alla reciprocità espressiva e linguistica proseguisse il suo cammino.
Nell’incontro dedicato al tema “Il pensiero gruppale” (organizzato a Pisa il 17 novembre 2012, in occasione del quale ascoltammo la voce di G.Hautmann che nel filmato parlava del legame tra vita personale ed esperienza clinica), mi ero soffermato su come le figurazioni arcaiche che caratterizzano l’esordio psicotico (pietrificazione, vegetalizzazione, animalizzazione…) mettano ogni volta a dura prova la labilità dei confini tra l’umano e il non-umano (H.Searles, 2001).
Anche dopo una crisi esse continuano a fluttuare nell’ambiente di cura come in un acquario in cui l’acqua si ritiri lentamente, lasciando ammutoliti gli operatori che toccano con mano come quel “continuum” psicopatologico sia difficilmante esprimibile in parole e dopo qualche giorno, quando si riesce a farlo, non si sia già più quelli di prima (H.Rosenfeld, 1989).
Infatti i vissuti psicotici che per la loro atrocità si riescono a malapena a sopportare in gruppo non sempre sono compatibili con la singolarità di chi li rivive come soggetto parlante, per cui solo lo scambio all’interno di una micro-comunità affiatata permette di suddividerne l’intensità e di accedere per gradi in un secondo momento (après coup) o per interposta persona alle parole adeguate per esprimerli. Paul Ricoeur il filosofo dell’ermeneutica francese che negli ultimi anni si era occupato dei Comitati etici (fece una deposizione pubblica anche sul problema del sangue contaminato), rivolgendosi ai gruppi di operatori dei Servizi sanitari in genere usava l’efficace espressione “cellule del buon consiglio”.
Potete quindi immaginare come quel quartiere di Borgo Ognissanti nel corso del tempo si sia tramutato per me in un sito (J.L.Donnet), un cronotopo come dicevo all’inizio, in cui nell’ora prestabilita mi era dato di assistere al “continuum” tra i vissuti più atroci appena osservati in equipe e il sussurro interiore che affiorando alle labbra cercava di enunciarli, con l’aiuto di Giacomo e Pippo.
Se penso all’analogia che H.Rosenfeld anche nei suoi Seminari italiani (editi dal Centro Milanese di Psicoanalisi, 1998) faceva dell’esordio psicotico come “di uno sciame d ‘api”, avendo presente l’emblema del grande navigatore fiorentino non posso che ammettere che quelli erano i momenti in cui la Rcg. materializzava in termini riparativi il suo miele.
E’ una delle tappe che anche ora mantengo quando ritorno a Firenze.
Così qualche anno fa ho potuto leggere tra i primi le lettere (una cinquantina) di M.Klein indirizzate alla Spira (M. Klein Lettres à M.Spira, P.U.F., 2013) nel periodo in cui la loro corrispondenza era particolarmente intensa dato che la Klein ci teneva molto che la sua opera “Psicoanalisi dei bambini” fosse tradotta in lingua francese.
Dalle lettere si deduce che la Spira fosse molto lusingata di questo compito assegnatole, ma allo stesso tempo fosse preoccupata ogni qual volta la Klein non era d’accordo sui colleghi psicoanalisti che proponeva come traduttori. In quegli anni, come poi si dovette ammettere, le incomprensioni tra le diverse scuole analitiche erano molto più accese di oggi.
La Klein temeva che alla compiacenza iniziale di chi si dimostrava lusingato dalla proposta subentrasse poi l’ambivalenza di fondo nei confronti del suo metodo.
Nella sua breve introduzione alle lettere J.Michelle Quinodoz riferisce come H.Segal e B.Joseph si fossero complimentate con lei per la pubblicazione di queste lettere e si fossero piacevolmente ricordate che agli inizi degli anni sessanta la Spira le avesse invitate nella cttà svizzera.
Ma anche su questo punto, come storico, non pretendo di essere esauriente.
Il mio é soltanto un accenno “a ritroso” per rendere ragione di una genealogia che attraverso il vostro invito il legame con Hautmann mi permette di ricostruire nei termini che spero raggiungano la nostra contemporaneità. Il fatto che Hautmann rispetto ad altri psicoanalisti della sua stessa generazione abbia esplicitamente parlato e scritto del suo debito con la Klein e dopo anche con Bion, ci permette di valutare quanto avidamente si possano assimilare all’inizio gli autori che si ammirano, e come la primogenitura che dal rapporto con gli scritti si pensa di aver ricavato abbia bisogno di tempo per decantarsi e raggiungere quella soglia di reciprocità (fraterna in Pontalis e più allargata in Starobinski) di cui i “Seminari analitici di gruppo” raccolti da Brignone sono la testimonianza.
In una recente intervista (Idee viventi, Il pensiero filosofico in Italia oggi, a cura di G.Barbera, Mimesis, 2018) anche una esponente importante della filosofia italiana contemporanea come Roberta De Monticelli, anch’essa frequentatrice dell’ambiente ginevrino, ha coniato a questo proposito l’espressione felice: “dono dei vincoli”. Se capisco bene, lei intende sottolineare come il rapporto con una tradizione di pensiero sia intimamente legato alla elaborazione del lutto nei confronti delle generazioni di pensatori precedenti. Nel lutto, accanto al vuoto e al sentimento di mancanza, é altrettanto innegabile il movimento orogenetico della memoria che in modo inarrestabile ricompone le tracce sbiadite dei legami facendole convergere verso l’unitarietà della persona del maestro che emerge. Per fare un esempio basterebbe pensare al fervore che nel primo dopoguerra la filosofia europea sentì nei confronti del ritrovamento degli inediti di E.Husserl (Walter Biemel, Ecrits sur la phénoménologie, ed. Ousia, 2009).
Sarebbe questa lenta ma inarrestabile verticalità che la memoria porta a compimento a definire meglio le proporzioni del debito che abbiamo nei confronti della generazione precedente.
Solo dalla percezione del carattere esemplare della donazione, per “corrispondenza dovuta” direbbe Starobinski, deriva il carattere conseguente della riparazione.
Così risulterà chiaro anche a voi perché il richiamo che Saraò ha fatto all’inizio allo scritto di Freud definisca ora il seguito che deve prendere il mio discorso in chiusura.
Come poteva non tornarmi in mente poco fa, mentre leggeva il suo testo, proprio quel tratto del Vallese percorso tante volte in treno di notte uscendo dalla galleria del Sempione verso Ginevra?
Dicevo che è collegato all’analisi personale, ma veramente è un testo che ci riporta indietro anche come gruppo italiano perchè a suo tempo, quando con Nicola Perrotti era altrettanto attiva l’anima adriatica della psicoanalisi romana, Sergio Bordi ricevette il Premio “Città di Penne” (1968, in Psiche, Anno V, Ed. dell’Ateneo) per aver scritto in proposito una nota sul processo creativo.
E poi chiunque abbia dovuto prendere un treno o un aereo per raggiungere nel corso degli anni la città del proprio analista, anche per percorsi più brevi del mio, sa che ci sono dei punti lungo il viaggio che suddividono in tappe il percorso, quando la geografia riesce a far da eco adeguata alla storia.
Succede anche a chi, senza andare in analisi, percorra il tratto che dalla Valdichiana va verso Orvieto.Come si fa a non avere un sussulto quando dal finestrino si intravvede in lontananza il costone su cui poggia Cortona, la città di Pietro (l’architetto della chiesa romana di S. Maria della Pace dove ci sono le Sibille di Raffaello) oppure i campanili di Città della Pieve paese d’origine del Perugino!
Ciascuno ha i suoi crescendo percorrendo il vostro paesaggio in cui le tracce della cultura italiana si fondono all’improvviso con il terreno dei dintorni facendo sciogliere in chi lo attraversa un misto di commozione profonda e riconoscenza (SP-PD, in Klein), che legittima il fatto di proferire sottovoce un termine che non é mai stato così poco di moda, cioè il termine “gloria” che ora qui nell’Educatorio del Fuligno mi sembra appropriato.
Sono brevi momenti in cui a contatto con la sintonia possibile tra macrocosmo e microcosmo (E. Cassirer, Individuo e cosmo nel Rinascimento, La Nuova Italia) la generosità del genius loci ci strappa promesse che con l’aiuto della volontà vorremmo fossero durature.
La nostra ontologia non ha più il carattere assoluto di quella medioevale, non si acquieta in un sapere ultimativo in cui si possa credere di aver l’ultima parola o di aver trovato la risposta una volta per tutte (concetto di O, in Bion). La nostra è un’ontologia storica, minima e itinerante, esposta a revoche che l’elaborazione del lutto impone nei confronti di ogni genealogia già sedimentata.
Per cui di conseguenza anche la nostra riparazione è interminabile ed avviene per innesti successivi spesso insperati. Se si dovesse trovare nell’opera di Bion il mentore che presiede alle nostre ritrattazioni simboliche “a venire”, si dovrebbe ripensare alla generosità di Virgilio, quando nell’episodio di Palinuro ci concede che Enea lo possa reincontrare nell’Ade, e il nocchiero fedele possa dire la sua versione dei fatti.
Come terza conferma alla frase iniziale di Starobinski riporto allora la citazione con cui E.Cassirer definisce la sua concezione della creatività in “Metafisica delle forme simboliche” (un manoscritto del 1928, pubblicato con alcuni inediti nel 1955): “…come la metafisica scolastica ha elaborato l’opposizione tra il concetto di natura naturans e quello di natura naturata, così la filosofia delle forme simboliche deve distinguere tra forma formans e forma formata…la prima non si dissolve mai interamente in essa, ma piuttosto conserva la sua capacità di affrancarsi da essa, di rinascere come forma formans, perché lo scorcio non esaurisce mai la serie completa” (Tre studi sulla “forma formans”, Clueb, 2003, pag.29).
Più recentemente anche l’epistemologo americano Thomas Nagel (Questioni mortali, il Saggiatore, pag.255), allievo di John Rawls, ricorrendo alla nota metamorfosi biologica del bruco in farfalla che suscita sempre la nostra incredulità, ha cercato di definire l’ipotesi di un continuum facendo l’analogia con quella che noi chiameremmo una simbiosi invisibile (J.Bleger): “Una possibilità é pensare che il bruco contenga inizialmente un minuscolo parassita alato che lo ha divorato ed è cresciuto fino a diventare una farfalla”.
Anche se l’idea é la stessa a cui intende riferirsi Cassirer, per i presupposti espliciti in termini di oralità primitiva (cannibalismo) con cui si esprime Nagel, il lessico antropologico e meno platonizzante di questa seconda ipotesi è per noi psicoanalisti più corrispondente.
Già Giordano Bruno aveva pensato, rileggendo Ovidio, che i “cani di Atteone” finissero per mangiarlo non per punirlo ma per farlo sopravvivere dentro di loro e poter condividere più intimamente con lui la bellezza di Diana che i suoi occhi avevano visto nuda (S.Carannante, G.Bruno e la caccia divina, 2013).
Infatti se si assimila fino infondo la concezione kleiniana della natura inclusiva della relazione originaria (realazione contenitore-contenuto, in Bion) ogni sua parte dispone della fecondità germinativa da riprodurre la serie completa.
A questo punto rimane da affrontare il confronto più arduo, dato che siamo ritornati al discorso introduttivo di Saraò che, citando lo scritto sulla Fugacità di Freud, accennava alla relazione tra melanconia, elaborazione del lutto e creatività.
Dicevo che questa relazione trova modo di essere illustrata dalla diverse interpretazioni che si possono dare dell’epitaffio di Rilke. Aggiungevo che per noi la discussione poteva prestarsi a fare indirettamente un confronto tra due orientamenti risultati prevalenti nella ricezione attuale dell’opera di Bion.Tenendo conto che ormai essa non costituisce più, come all’epoca del mio training, un fenomeno soltanto italiano perché nei decenni successivi l’influenza del suo pensiero si è molto più estesa e generalizzata.
Nel frattempo, in attesa dell’incontro di oggi, era uscita infatti una prima pubblicazione dell’epistolario di Bonnefoy (Correspondance (I), pag. 828, Les Belles Lettres, Gallimard, 2018), dove sono raccolte alcune lettere di P.Jaccottet, biografo di Rilke, che fanno riferimento al piccolo cimitero di Rarogne e a quell’epitaffio.
Vi riporto prima la frase e poi i due commenti.
L’epitaffio dice: “Rosa, a pura contraddizione, gioia / Di non essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre” (traduzione di Bonnefoy dal tedesco).
Già in precedenza i due poeti avevano ammesso il loro disaccordo nell’interpretazione della frase che Rilke ha voluto scolpita sulla sua tomba. La differenza può essere riassunta schematicamente dicendo che il primo insiste sull’archetipo-realtà mentre il secondo sull’archetipo-immagine.
Per Jaccottet l’ambiguità implicita nell’uso del termine “personne” (che in lingua francese significa persona e al tempo stesso nessuno) non é tale da giustificare che si debba attribuire al poeta il proposito di dissolvere il senso di finitudine umana nella pregnanza di una natura in boccio senza nome (nichilismo).
Bonnefoy si era già espresso in proposito (commentando i disegni sul paesaggio del Vallese del pittore iraniano Farhad Ostovani, ed. W. Blake, 2004), sottolineando il contrasto salutare che rispetto alle suggestioni suscitategli dalla rosa di Rilke, riusciva a trarre dalla visione imponente del Grammont, una delle montagne che si ammirano poco più giù lungo l’altra riva del Rodano.
Secondo Bonnefoy la frase “evoca una rosa nel pieno della sua fioritura. Di questa rosa i petali sono come delle palpebre chiuse, ma così numerose che il sonno a cui fanno pensare sembra il sonno di nessuno: quello che alcuni sognano per un’umanità liberata dalle angosce dell’esistenza personale attraverso la gioia delle percezioni sensoriali che accedono alla loro pienezza nell’intemporale dell’ora estiva…
Io provo in ogni caso per quanto mi riguarda -continua Bonnefoy- molte riserve nei confronti di questo grande sogno. Posso provare ad opporgli un altro pensiero dell’esistenza, della relazione con ciò che é, rosa sbocciata o appassita, l’intemporale che avviene nella pratica del tempo, nella vita di ogni giorno…Felicemente, nel coso di quella visita (a Rarogne), avevo anche altri oggetti su cui riflettere…c’era l’altra riva del fiume, con quelle masse rocciose pesanti ora cupe e ora chiare: l’alta montagna che pure può essere percepita come un archetipo..”.
Vediamo la lettera di P.Jaccottet di alcuni mesi dopo (18 agosto, 2005)…”Per quanto scrivete di Rilke, sicuramente non sarete sorpreso che io non sia d’accordo con voi…L’epitaffio, il cui senso rimane ambiguo, mi é sempre sembrato un esempio di quelle metafore un po’ troppo preziose dalle quali Rilke si è qualche volta lasciato prendere, ma non per questo si tratta di una chiave di lettura per comprendere l’intera sua opera la quale invece contiene tante ricchezze riconducibili alla vita concreta (per esempio la Parigi descritta nel Malte), certe descrizioni di libri, come pure tante angosce, tante paure, e tanta sensibilità a volte quasi eccessiva per i colori, i profumi, e per tutto ciò che risente del tempo che passa (senza eccedere mai in concettualizzazioni)”.
Pregio quest’ultimo su cui Jaccottet giustamente insiste alla fine della sua lettera, sicuro che su questo punto l’accordo è invece completo.
Il fatto è che secondo Bonnefoy la vita in quella frase dolcissima sembra rimanere inghiottita dalla sua stessa bellezza, quasi vegetalizzata sul nascere, perdendo la sua dimensione storica intimamente connessa con la finitudine umana (“rosa sbocciata, rosa appassita”).
Ma perché rivolgersi alla montagna sotto il segno di questa rosa di Rilke?
“Perchè con lei -prosegue Bonnefoy- non è più il caso di una partecipazione voluttuosa a ciò che ci offre di piacere la realtà sensoriale…Nella figura emblematica che prende forma nel mondo delle sensazioni è in realtà il mondo delle parole a prevalere, dato che è soltanto attraverso le parole che si possono isolare le sensazioni, per tentare di gioirne nonostante le intrusioni della finitudine. A questa prevalenza delle parole risponde questa montagna violenta, ingrata: detta in altro modo questa finitudine stessa, ma che bisogna pur accettare come la realtà ultima, nel suo assoluto al di fuori del linguaggio”.
“Quando desideroso di poesia -prosegue Bonnefoy- sono ancora là a rimestare sul significato, a considerare dei concetti, l’irriducibile Grammont é là per aiutarmi, direi io stesso, a liberarmi dalle loro trappole,…il pensiero non é mai, non sarà mai altro che un cammino”.
Credo che durante l’esposizione “a braccio” devo aver detto che per Bonnefoy, cui va in questo caso la mia preferenza, la poesia più che uno splendido incanto è piuttosto “un atto inteso a rimediare al male che il linguaggio può fare alla vita”, come dirà egli stesso nel suo ultimo scritto dal titolo “La sciarpa rossa”, dedicato al padre operaio (Mercure de France, 2016).
Riprendendo l’accenno fatto di scorcio all’inizio sulla filosofia della natura, direi a questo punto che la nostra “venatio sapientiae” (“caccia della sapienza”, che il Cusano scrisse pare proprio a Città della Pieve), sia essa centrata più sulla révérie o più sugli assiomi scientifici, trova nel comparativismo critico ricavato dai classici la trasparenza necessaria a intravvedere il cammino impervio da percorrere per raggiungere la vera bellezza.
Come ultimo accenno all’assioma iniziale di Starobinski, voglio riportare alcuni versi di Vittorio Sereni che si collocano sul valico di cui diceva l’Assessore, quando si transita dalla bellezza delle opere artistiche a quella del mondo interno delle persone.
La poesia a cui mi riferisco (in Stella variabile, Einaudi, pag.66) riesce a dar voce al sussurro delle personificazioni intercedenti che affiorano lungo la linea C della Griglia suggerendoci come mettere mano al tempo quando la coralità interiore varca la soglia dal pre-verbale al verbale:
“Niente ha di spavento / la voce che chiama me / proprio me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / é un breve risveglio di vento, / una pioggia fuggiasca./ Nel dire il mio nome non enumera / i miei torti, non mi rinfaccia il passato. / Con dolcezza (Vittorio, / Vittorio) mi disarma, arma / contro me stesso me”.