Testo della relazione di Antonio Suman presentata al convegno “Il pensiero di Giovanni Hautmann”.
Firenze, sabato 19 maggio 2018
PREMESSA STORICA
30 anni fa nel dare inizio, con un primo editoriale, alla rivista Contrappunto, rivolgevo un ringraziamento a Giovanni Hautmann per il suo importante contributo alla formazione della AFPP iniziato negli anni 70 e proseguito per molti anni. I membri del Gruppo Fiorentino di Psicoterapia Psicoanalitica, poi trasformato in AFPP, si incontravano mensilmente presso la Biblioteca dell’Ospedale Psichiatrico di San Salvi, per i seminari clinici da lui condotti. Era un momento importante perché costituiva una mattinata di riflessione che interrompeva l’operare quotidiano conferendo un senso “altro” al nostro lavoro. Un’ottica psicoanalitica applicata in setting non tradizionali e con pazienti di diverse patologie, anche psicotiche. Niente poteva essere dato per scontato, c’erano una prassi e una tecnica tutte da trovare. Era una ricerca che aveva il sapore dell’esplorazione di nuove possibilità operative cliniche. Non si trattava propriamente di un lavoro di supervisione di una psicoterapia, ma l’occasione di attivazione di un pensiero psicoanalitico che univa aspetti cognitivi e emotivi, individuali e gruppali tra i partecipanti, medici e psicologi in formazione psicoanalitica. Ricordo particolarmente il clima emotivo che riusciva a suscitare attraverso il recupero degli interventi dei partecipanti e il loro “assemblaggio” al fine di costruire una immagine (oggi diremmo virtuale) del soggetto presentato a turno da un partecipante. Terminato il seminario persisteva una “resilienza” (sempre per usare una parola di più recente conio) che durava ancora un po’ di tempo, come se si uscisse da un atteggiamento immaginativo/sognante e si dovesse tornare a far fronte ai problemi posti dalla quotidianità. Queste esperienze condivise avevano un potere aggregante del gruppo di lavoro.
LA TECNICA
Ora vorrei accennare alla particolarità della tecnica di discussione dei casi clinici in gruppo, le analogie e le differenze con la supervisione individuale, con il lavoro dell’analista/psicoterapeuta psicoanalitico in seduta e con i seminari clinici organizzati in modo più tradizionale. Considero questo “lascito” di Giovanni Hautmann il suo più significativo contributo alla formazione culturale della AFPP. Alcuni suoi seminari sono stati commentati e pubblicati a cura di Antonino Brignone. Sono stati anche l’oggetto di un gruppo di studio più di 10 anni fa, con lo stesso Nino Brignone, Gregorio Hautmann, Romeo Cungi, Marco Bonazza ed io.
I seminari di gruppo sono stati seguiti da un numero variabile di partecipanti (20/30), in genere sempre gli stessi per una durata di circa 3 ore per sessione inizialmente a cadenza mensile. A turno un partecipante esponeva il caso riferendo in modo libero e spontaneo, alcuni dati storici e qualche seduta di un adulto, di un adolescente o di un bambino in trattamento psicoterapeutico psicoanalitico. La relazione che si sviluppava tra psicoterapeuta/analista e paziente si replicava fra conduttore e partecipanti, ma anche in alcuni momenti, fra il gruppo (al posto dello psicoterapeuta che presenta il caso) e il presentatore del caso (al posto del paziente) quest’ultima evenienza si presenta anche nei Gruppi Balint a cui farò riferimento in seguito.
Inizialmente il conduttore del gruppo manteneva un atteggiamento di astinenza per lasciare il lavoro mentale al gruppo che viene invitato a intervenire liberamente interrompendo l’esposizione del caso con domande, ricordi di situazioni analoghe, associazioni che sentiva il bisogno di esprimere. Tali interventi venivano utilizzati come tessere di un puzzle che aiutavano a ricostruire l’identità del paziente in oggetto.
Questo incrocio di reciproche proiezioni veniva interpretato dal conduttore che, attraverso il proprio controtransfert e la conseguente verbalizzazione, rendendo coscienti e condivisibili i movimenti cognitivi, emotivi, relazionali recepiti ed espressi dal gruppo attivati dal materiale riferito del paziente in esame. In questo senso il lavoro del conduttore è simile a quello dell’analista/psicoterapeuta in seduta. Ma se ne differenzia perché oggetto di interpretazione è la mente gruppale che di solito coglie elementi di organizzazione del pensiero e livelli emotivi, più primitivi e meno strutturati. Gli interventi dei partecipanti possono fare emergere aspetti diversi, a volte anche conflittuali tra loro, che sono riferibili ad aree molteplici della mente del paziente (comprese le parti inizialmente silenti in attesa di simbolizzazione e verbalizzazione rappresentate dai partecipanti che ancora non hanno parlato). Si rende necessario dunque che il conduttore, di fronte ad un materiale eterogeneo e poco coerente, tolleri il rapporto con l’ignoto (penso alla “capacità negativa” di Keats ripresa da Bion o la sospensione attiva di memoria, conoscenza e desiderio) in attesa che si formi una nuova idea, “un fatto scelto”, in grado di conferire nuovo significato ai contributi dei partecipanti. Non è necessariamente il conduttore a percepire il fatto scelto ma può essere anche qualcuno del gruppo e neppure egli propone una lettura univoca del testo ma piuttosto aiuta a produrre ulteriori libere associazioni. In questo senso si discosta da un usuale seminario di supervisione in cui il conduttore mostra la propria capacità di lettura del materiale clinico e i presenti assistono passivamente e solo poi possono porre le domande. La partecipazione attiva nel lavoro di ricomposizione della figura del paziente in oggetto e la sua relazione con il terapeuta attraverso associazioni ideative, immagini, emozioni e pensieri rende molto vivo e coinvolgente il clima del seminario. L’apporto dei partecipanti è essenzialmente verbale, ma esprimendo certi contenuti di pensiero o evocando affetti, produce una coloritura emotiva che proviene anche dai silenzi, dal ritmo delle successioni, dalla comunicazione diretta delle emozioni, dalle espressioni corporee. Sono elementi in sé privi di significato ma che, confluendo in insiemi immaginativi, assumono una valenza estetica.
In tal modo si costituisce un “campo” che è un ponte fra individuo e gruppo, un’area comune, uno spazio in cui sono depositati i contenuti in grado di suscitare un pensiero sognante di trasformazione fra pensiero e emozione, simile a quanto accade nel paziente durante la seduta analitica. Il gruppo sembra focalizzato sull’espressione delle proprie impressioni e sensazioni stimolate dal materiale; in particolare si può notare come la qualità visiva dell’immagine potrebbe essere accostata a una sorta di sogno su cui si attivano le associazioni del gruppo, mentre queste immagini diventano raffigurazioni iconiche che tengono insieme vari elementi (Barnà e Brignone, Brignone A. (1999), I seminari analitici di Gruppo di Giovanni Hautmann, Pisa, ETS, 1999).
Ho accennato sinteticamente ai seminari secondo il “metodo Hautmann”. Gli aspetti formativi di esperienze ripetute come quelle descritte hanno un effetto formativo promuovendo più o meno sensibili cambiamenti interiori. Possono cioè favorire, anche al di fuori dei contesti strettamente psicoterapeutici, atteggiamenti di accoglimento di comprensione delle opinioni degli altri e di tolleranza di momenti di disorganizzazione dell’attività mentale per l’emergenza di stimoli emozionali intensi o contrastanti, senza dover ricorrere a pseudo risposte che occludono (o saturano) il procedere dei processi di pensiero e irrigidiscono le relazioni interpersonali.
Il GRUPPO BALINT
Presenterò ora una applicazione di quanto descritto nella mia attività di conduttore di Gruppo Balint. Premetto che i GB sono nati negli anni ’60 a Londra per aiutare i medici di medicina generale. Uno di essi a turno (erano 6 / 8 partecipanti) riferiva oralmente un caso con un paziente problematico. L’obiettivo era quello della “diagnosi globale” comprendente aspetti somatici, psicologici, relazionali del paziente e l’esame del rapporto con il curante. La tecnica è semplice ma la realizzazione è più complessa e richiede un’esperienza specifica. Sono gruppi eterocentrati (sulla relazione medico-paziente) per definizione che, a differenza dei gruppi descritti in precedenza, tengono conto prima di tutto della malattia somatica e poi delle sue correlazioni storico/psicologiche per la costruzione di un quadro attendibile di un paziente. Lo scopo è quello di aiutare il curante a superare le difficoltà del caso con l’aiuto del gruppo. I Balint (Michael e Enid) pensavano che l’acquisizione di un’attitudine psicoterapeutica non consistesse soltanto nell’imparare qualcosa di nuovo ma implicasse una “modificazione limitata ma importante” della personalità del medico. I Balint erano molto attenti al controtransfert dell’operatore che partecipava al gruppo, senza per questo trasformare l’incontro in un gruppo terapeutico.
Mi è sembrato utile apportare qualche modifica tecnica aggiungendo da parte del conduttore dei riferimenti al vissuto del gruppo sottolineandone i movimenti consci e inconsci in atto. In questo senso il gruppo eterocentrato si alterna con momenti in cui diventa autocentrato. Quando durante una sessione un gruppo viene sollecitato a riflettere su se stesso e sul “qui ed ora” si attiva e si vivacizza.
Il gruppo a cui oggi mi riferisco riguarda 15 partecipanti di provenienza eterogenea (psicologi di diversa formazione: psicodinamica, relazionale, cognitivista, ecc., medici, infermieri) frequentanti un corso sul lutto, senza esperienza di GB. Il tempo a disposizione del gruppo era di h.1,30. Un gruppo poco aggregato necessita però di maggiori interventi da parte del conduttore.
Una psicologa che lavora nel servizio di Psiconcologia, riferisce spontaneamente del suo rapporto che dura da alcuni mesi, con frequenza settimanale, con un paziente ultrasettantenne che è affetto da melanomi al volto (più di uno) che sono stati asportati. E’ un professionista (per motivi di riservatezza rimango nel generico) che racconta una storia risalente a diversi anni prima. Il suo compito lavorativo era di effettuare dei controlli sui lavori appaltati eseguiti per conto un ente pubblico. Si accorse che i lavori non venivano effettuati come dovuto. Cominciò allora a redigere rapporti denunciando le irregolarità dei lavori. Il suo atteggiamento forse intransigente (?) cominciò a irritare i destinatari dell’ente di appartenenza e la questione ebbe anche conseguenze legali con risultati negativi per il paziente. Dopo varie vicissitudini, venne emarginato e successivamente si sentì costretto alle dimissioni e al pensionamento anticipato (mobbing?). Con questa penosa storia occupa gran parte delle sedute recriminando sul passato. Il paziente esprime sentimenti di umiliazione, di vergogna, di rabbia impotente. E’ un vero fallimento esistenziale. Si sente vittima di ingiustizia, si duole anche di non aver potuto aiutare il figlio in un lavoro simile al suo. La moglie invitata dalla psicologa, da poco in pensione, appare stanca, malata e provata dalla situazione.
La psicologa riferisce il caso perché le sedute sono diventate ripetitive e “vuote” di significato. Ha ascoltato più volte il racconto di questa dolorosa storia poi ha insegnato al paziente, per il suo stato tensivo e disturbi del sonno, una tecnica di rilassamento respiratoria che ha prodotto dei miglioramenti. Ora però il rapporto è in stallo così che la dottoressa ha programmato di diradare le sedute ogni due settimane.
Il gruppo recepisce le difficoltà della dottoressa. Suppongo che il paziente abbia un’organizzazione di personalità di tipo ossessivo, con ruminazioni, rigidità di pensiero, note depressive (ma non lo comunico). Invito il gruppo a intervenire liberamente anche durante il racconto con quanto ognuno ha voglia di comunicare ed eventualmente fornire alla terapeuta qualche suggerimento per aiutarla. Circa la metà dei partecipanti interviene cercando ulteriori notizie o qualche associazione ideativa ma in complesso pesa un senso di sfiducia, di impotenza, di depressione, gli stessi provati dalla dottoressa e dal paziente, gli interventi sono scoordinati, non aggiungono nulla di significativo. Io stesso sono immerso in questo stato d’animo. La malattia potenzialmente mortale indifferenziata e “narcisistica”, distruttiva delle cellule cancerose che si manifesta con le macchie scure sul volto e i sentimenti di umiliazione, di vergogna e di impotenza suggeriscono un qualche tipo di collegamento. Il corpo sembra manifestare una parte non altrimenti espressa dei sentimenti.
La dottoressa si sta arrendendo di fronte all’inefficacia dei suoi intenti terapeutici.
Riprendo alcuni singoli interventi facendo notare che essi colgono aspetti diversi della situazione, commento il senso di sfiducia e d’impotenza provato dalla dottoressa ed ora dal gruppo. Lo scopo è quello di costituire una sorta di contenimento del gruppo e la costruzione di un abbozzo di “campo”. Io stesso partecipo a questo senso di impotenza, tuttavia per precedenti esperienze, attendo che arrivi una nuova idea: dice Ferro che se si costruisce un contenitore prima o poi arriva anche un contenuto. Lo stallo si protrae ancora poi dico che il paziente mi pare molto interessato alle sedute, (cosa che la dottoressa conferma). Penso che il nostro paziente sia un uomo che ha dei suoi principi, delle ferme convinzioni, a cui non ha mai rinunciato, quindi una sua integrità per le quale ha lottato fino che ha potuto. E’ stato sconfitto dalle forze soverchianti dell’avversario ma ha opposto una difesa eroica, “frangar non flectar”. Mi sembra perciò degno di rispetto, di stima e anche di ammirazione. La dottoressa aggiunge che è una persona educata e colta, a volte anche ironica. E poi aggiunge ciò che fino a quel momento aveva taciuto: “si è innamorato di me”. Ora il quadro e il vissuto del gruppo cambia. Si capisce che uno dei motivi del diradamento delle sedute è dovuto all’imbarazzo per questa inaspettata svolta del rapporto che è stato sentito come un inconveniente del percorso. La terapia sembra priva di senso perché è limitata dalla esclusione dei sentimenti d’amore. Dunque è essenziale che lei accetti questo sentimento come un dono prezioso che le viene offerto e il paziente e, come a tutti accade quando offriamo un dono importante, sarà in ansia per vedere come lei lo riceverà.
La peggiore delle sofferenze è quella che non possiamo condividere. Questa persona ha vissuto un senso di fallimento esistenziale che gli ha cambiato la vita…e poi è comparsa la malattia, le macchie scure sul volto, sembrano mettere un sigillo a questa storia con una sconfitta definitiva e mostrano una verità tragica che lo riguarda intimamente e che tutti possono vedere. E per un individuo la cosa peggiore è non essere visto e riconosciuto per quanto c’è di valido, di buono, di forte. C’è ora un’occasione da cogliere valorizzando la forza vitale dell’innamoramento che può avere conseguenze positive. Riconoscere queste qualità e l’accoglimento dell’offerta di amore, sono gli obiettivi di questa cura e fare in modo che almeno il paziente guarisca da questa sofferenza psichica anche se forse non possiamo sapere se gli allungherà la vita..
Gli interventi dei partecipanti sono di sollievo, di sostegno e di incoraggiamento a proseguire il lavoro psicoterapeutico che ora appare proficuo e interessante, stimola la curiosità sul suo proseguimento. In questo caso però non ci saranno verifiche perché il lavoro del gruppo si chiude a questo punto. Al termine della seduta la dottoressa, che cambierà la sede lavorativa, programma di riservare nel futuro l’ora per questo paziente.
Quando si pongono al centro dell’attenzione le riflessioni e la presa di coscienza sul vissuto del gruppo che non appartengono tradizionalmente ai Gruppi Balint, si può arricchire l’esperienza di un ulteriore apporto emozionale rendendo il lavoro più coinvolgente e consapevole. Un cambiamento della tecnica che deriva dalla partecipazione ai seminari di Hautmann.
La scomparsa delle persone che sono state importanti nella nostra vita, come e avvenuto con Giovanni Hautmann, chiude il rapporto con loro nella realtà quotidiana ma ci rende responsabili di conservare e trasmettere ai più giovani ciò che i nostri maestri ci hanno insegnato.
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