Relazione presentata al Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI “Il lavoro di controtransfert nella cura psicoanalitica degli adolescenti”
sabato 8 Giugno 2013
Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti, 6 Firenze
Introduce Stefania Nicasi (SPI).
Intervengono Adriana Ramacciotti (SPI) e Sandra Carpi Lapi (AMHPPIA)
Testo della relazione di Irene Ruggiero che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice
Esperienze interiori non pensate.
Già Freud aveva postulato (1914) l’esistenza di processi psichici che non hanno accesso alla coscienza non perché rimossi, né perché disinvestiti, ma per una mancata “notazione” e segnalato in diverse occasioni (1913; 1915; 1921a) la presenza di comunicazioni da inconscio a inconscio, che eludono la coscienza e prescindono dall’uso dello strumento verbale, delle quali l’analista diventa consapevole tramite “idee improvvise di cui non conosciamo l’origine” (Freud, 1915, 50): attraverso di esse, grumi senso- affettivi ancora indefiniti prendono forma e trovano una via di accesso alla coscienza grazie alla ricettività dell’analista.
L’analista contribuisce così a convalidare e a dare un senso di realtà psichica ad esperienze interiori che, prive di accesso alla coscienza per una mancata notazione, gli vengono trasmesse attraverso la comunicazione inconscia, base dell’identificazione proiettiva. Accogliendo la comunicazione inconscia e trasformandola in una rappresentazione comunicabile attraverso l’elaborazione controtransferale, l’analista conferisce una possibilità di esistenza psichica a esperienze interiori non formulate e quindi né veramente consce né veramente inconsce (Riolo, 2009), trasportandole – per così dire – fuori dal limbo. E’ in questo senso che la terapia può costituire il “completamento di un atto psichico precedentemente incompiuto” (Freud, 1895, 435), favorendo lo sviluppo della soggettivazione, compito precipuo del processo psicoanalitico.
La comunicazione inconscia rappresenta un’importante via di accesso agli affetti dei pazienti adolescenti, poco inclini alle libere associazioni, le cui capacità rappresentazionali fisiologicamente ancora immature fanno sì che essi comunichino maggiormente attraverso quello che fanno e che fanno sentire che attraverso le parole: ciò rende cruciale la capacità e la disponibilità dell’analista ad utilizzare il proprio inconscio per risuonare con quello dell’adolescente e per dare figurabilità (Botella, 2004) a quanto egli non può ancora esprimere attraverso lo strumento verbale.
La funzione dell’Altro nel recupero delle esperienze interiori non pensate.
Lungo tutto l’arco del pensiero di Freud si ritrovano accenni al ruolo essenziale svolto nel processo analitico dalla personalità dell’analista, con le sue specifiche caratteristiche. Nel saggio “Le prospettive future della terapia psicoanalitica”, Freud sottolinea che un analista può procedere “esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne” (1910, 201). Successivamente, affermando che “ogni rimozione non risolta nel medico corrisponde… a una “macchia cieca” nella sua percezione analitica” (1912, 537), Freud istituisce una relazione tra la personalità dell’analista, il livello di realizzazione della sua analisi personale e le sue potenzialità terapeutiche. Va nella stessa direzione la sua osservazione che la tecnica psicoanalitica si era rivelata l’unica adatta alla sua individualità, ma che non poteva escludere che “una personalità medica di tutt’altra natura potesse essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al suo compito [di medico] (1912, 532). In Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921b), Freud segnala che la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio [corsivo mio], psicologia sociale. In Analisi interminabile e interminabile (1937a), Freud ritorna sull’argomento ribadendo che le prospettive di successo della cura psicoanalitica dipendono non solo dalle caratteristiche del paziente, ma anche da quelle dell’analista. Su questa linea di pensiero, Foresti (2013) individua nel Freud di Costruzioni in analisi (1937b) “un impressionante inter-soggettivismo ante litteram”, in quanto “attribuendo all’analista un compito delicato e importante che lo impegna anche soggettivamente”, Freud riconosce il “carattere biunivoco e collaborativo” del lavoro clinico. “La parte di lavoro che spetta all’analista ha a che fare con il come e quando costruisce e/o ricostruisce, cioè le modalità in cui interpreta, e con il tipo di delucidazioni con cui comunica all’analizzando le proprie interpretazioni” (Foresti, 2013).
Sono stati soprattutto i contributi di Bion sulla reverie e quelli di Winnicott sull’holding environment che hanno aperto la strada ad una prospettiva relazionale che sottolinea il ruolo cruciale della dimensione intersoggettiva sia nello sviluppo della mente che nel processo analitico.
La valorizzazione degli aspetti comunicativi della identificazione proiettiva (M. Klein, 1946), operata da Bion, ha fornito una base per pensare al contro-transfert come ad un processo omogeneo alla reverie materna1 le trasformazioni proiettive (Bion, 1965), attuate tramite l’identificazione proiettiva, si realizzano in uno spazio comune tra paziente e analista e conferiscono all’intrapsichico una dimensione interpsichica: l’identificazione proiettiva, infatti, pur rappresentando un movimento che nasce in una persona, sollecita al punto la partecipazione attiva dell’altra, oggetto di essa, da determinare un fenomeno psichico che non riguarda soltanto la mente del soggetto ma le due menti in interazione del soggetto e dell’oggetto. Per questo, non si può comprendere la fantasia inconscia che si attualizza tramite l’identificazione proiettiva senza prendere in considerazione il contesto relazionale in cui avviene e le caratteristiche sia del soggetto che dell’oggetto.
Il modello proposto da Bion ha aperto nuove prospettive alla comprensione della dimensione preverbale e delle emozioni ancora informi del paziente, per la cui figurabilità il contro-transfert dell’analista costituisce un canale privilegiato: in un primo tempo, l’analista riconosce quanto proiettato in lui e le intenzionalità comunicative inconsce del paziente; in un secondo tempo, e solo dopo averle accolte, condivise e “sofferte” sulla propria pelle, restituisce alcuni degli elementi proiettati attraverso l’interpretazione. L’indagine sugli strumenti mentali di cui l’analista dispone per contenere e bonificare le proiezioni senza restituirle al paziente troppo precocemente ha promosso successivi approfondimenti sulle molteplici funzioni che l’analista svolge nel processo analitico (Berti Ceroni, 1997) e sul funzionamento della mente dell’analista (Ogden, 1991).
La sottolineatura della funzione cruciale dell’oggetto nello sviluppo del Sé, sia nell’infanzia e nell’adolescenza2 e la valorizzazione dell’area e dell’esperienza transizionale, operata da Winnicott, hanno a loro volta contribuito ad attivare importanti riflessioni sui fattori terapeutici non specificamente interpretativi, quali l’accoglienza, la sintonizzazione, la condivisione, l’empatia (Bolognini, 2002), la capacità di sognare e di giocare (Ogden, 1994), quella di attendere e di sostenere il dubbio, quella di tollerare il controtransfert (Carpy, 1989) e di elaborarlo con un lavoro autoanalitico (Russo, 1998; Ruggiero, 2011).3
1 Secondo questo modello, il lattante, supposto possedere fin dall’inizio della vita la capacità di “suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere” (1962, 65), evacua nella mente di lei quanto risulta indigeribile alla propria, ed effettua così una forma primordiale di comunicazione, fondata sul sentire e sul fare sentire. A questa la madre risponderà con la propria funzione di reverie, volta a contenere, trasformare e dare un senso agli elementi sensoriali grezzi del bambino, in modo che egli non ne sia sommerso e intossicato.
2 Basti pensare al ruolo cruciale di rispecchiamento materno nella prima infanzia (1957) e a quello dell’”oggetto che tiene” in adolescenza (Winnicott, 1961, 1968a), fondamentale per l’integrazione dell’aggressività vitale (1968b).
3 In quest’ottica, che racchiude un implicito ridimensionamento della centralità dell’interpretazione come fattore terapeutico e valorizza l’apporto della specifica soggettività dell’analista nel processo terapeutico, il transfert si è andato via via definendo come evento determinato non solo dalle esperienze passate ma influenzato anche dall’esperienza attuale con l’analista, e dalle caratteristiche di quest’ultimo.
Quale controtransfert?
Com’è noto, quello di controtransfert è un concetto tuttora piuttosto controverso. Esso designa una varietà di concetti teorico-clinici non facilmente sovrapponibili, che spaziano da una concezione ristretta, che denota reazioni anomale dell’analista attribuibili all’emergenza di suoi bisogni e conflitti inconsci, ad una tanto allargata da includere tutte le emozioni, le fantasie e gli atteggiamenti coscienti dell’analista verso il paziente.
Anche nel panorama italiano contemporaneo, il concetto si estende lungo una linea ai cui estremi si situano, da una parte, coloro che – in linea con la teorizzazione freudiana del controtransfert come macchia cieca (Freud, 1910) – lo considerano un evento delimitato e circoscritto, una perturbazione dell’assetto analitico di base dovuta all’emergenza di difficoltà dell’analista: per Riolo (1998) esso rappresenta “una rottura della catena affetto-rappresentazione” e si colloca pertanto “nella categoria dell’azione”; per Semi, esso costituisce una resistenza dell’analista, e specificamente i mezzi posti in opera inconsciamente o preconsciamente per ripristinare una condizione di integrità narcisistica (1998,323), minacciata dall’emergenza del transfert del paziente, “un estraneo che è entrato in lui lo fa pensare quel che vuole” (1998,321). Per Russo, che pure ne condivide una definizione ristretta, il controtransfert contiene i “resti non analizzati” dell’analista e rappresenta nel contempo una forza-lavoro che si avvia grazie all’autoanalisi che l’analista ne fa. All’altro estremo troviamo coloro che – nel solco tracciato dai lavori di Heimann (1950) e Racker (1953;1957) – sottolineano gli elementi di inevitabile interazione insiti nella relazione analitica e ritengono che il contro-transfert costituisca, piuttosto che un’emergenza transitoria e sostanzialmente indesiderata, un elemento costitutivo essenziale della relazione analitica e che rappresenti uno strumento con cui l’analista può mettersi in contatto con elementi ancora informi dello psichismo del paziente, raggiungibili attraverso l’analisi del controtransfert: in quest’ottica, il controtransfert, ben lungi dal rappresentare un ostacolo, svolgerebbe un’importante funzione gestativa di elementi potenziali e di nuove tessiture di esperienza, contribuendo alla nascita di elementi germinativi della personalità del paziente, alla comparsa di “sé non nati” (Di Benedetto, 1998).
In una posizione intermedia, si collocano coloro per cui il contro-transfert mantiene una duplice natura di ostacolo e di risorsa, da una parte potenziale fonte di “macchie cieche” che offuscano la comprensione dell’analista, dall’altra prezioso strumento di esplorazione dell’inconscio del paziente (Bolognini, 1995; Ferruta, 1998). E’ tra questi che mi colloco, in quanto da una parte trovo innegabile che il controtransfert, soprattutto se raggiunge una certa intensità, pervasività e persistenza, costituisca un ostacolo alla capacità dell’analista di mettersi in contatto con l’inconscio del paziente, dall’altra ritengo difficilmente confutabile che esso rappresenti anche una potenziale risorsa per accedere ad affetti ancora informi e non mentalizzati del paziente.
Non mi sembrano convincenti i tentativi di differenziare, all’interno delle reazioni controtransferali, un contro-transfert “patologico” – sostanzialmente un transfert dell’analista sul paziente – da uno “normale”, che costituirebbe una risposta adeguata al transfert del paziente (Money Kyrle, 1956); anche perché il contro-transfert, incidendo sul livello di comprensione e sul comportamento dell’analista, influenza il paziente e il suo transfert, e interferisce quindi con la natura del processo analitico (Racker, 1957; Searles, 1958; Rosenfeld, 1987; Pick, 1985; Manfredi Turillazzi, 1994; Bolognini, 2002; Ponzi e Turillazzi, 1999).
Controtransfert come ostacolo, controtransfert come risorsa.
Il ruolo degli affetti dell’analista nella relazione analitica costituisce una questione ineludibile da quando, sulle orme del Freud di Analisi terminabile e interminabile, abbiamo rinunciato all’idea di un’analisi compiuta e di un inconscio che possa essere interamente disvelato e del tutto padroneggiabile. Il controtransfert compare quando meno ce lo aspettiamo e, se non vi prestiamo sufficiente attenzione e non lo elaboriamo adeguatamente, ostacola la nostra comprensione del materiale del paziente, rischiando di esitare in situazioni complesse di impasse o in agiti di controtransfert (Ruggiero, 2012).
Gli analisti che ritengono che i fenomeni di contro-transfert costituiscano un’espressione di conflitti inconsci dell’analista che ostacolano la sua possibilità di comprensione lasciano in ombra il ruolo del paziente nel determinarli; esso viene invece sottolineato dagli analisti che condividono l’idea che il controtransfert costituisca un prezioso indicatore di stati interni dei paziente, del cui inconscio favorisce la rappresentabilità.
Personalmente, mi sembra che il controtransfert costituisca una formazione complessa cui concorrono paziente e analista. A mio parere, non è il controtransfert a costituire a priori un ostacolo o una risorsa, ma la qualità dell’elaborazione controtransferale che – se adeguata – trasforma il controtransfert da potenziale ostacolo in risorsa preziosa. Autoanalisi e analisi del controtransfert costituiscono entrambi strumenti imprescindibili dell’elaborazione controtransferale, che viene a costituirsi come una sonda che può aiutare l’analista a monitorare lo stato della relazione analitica e a recuperare un assetto adeguato nei momenti di turbolenza relazionale: la prima si attua lungo una dimensione verticale, sostanzialmente intrapsichica – attraverso la quale l’analista ricerca quanto dentro di lui ostacola la sua comprensione del paziente, la seconda lavora lungo un asse orizzontale e interpsichico attraverso cui l’analista si interroga su quello che il paziente può avere trasferito in lui, cercando di dargli un abbozzo di figurabilità.
Questa concezione del controtransfert implica un’idea del processo analitico come relazione in cui aspetti simmetrici (la condivisione emotiva profonda, le identificazioni reciproche) coesistono con aspetti asimmetrici (la differenza di ruoli e di funzioni, la focalizzazione del lavoro analitico sul paziente) e una concezione del transfert e del controtransfert come modalità di funzionamento inconscio della mente in relazione. Essa presuppone che sia possibile una trasformazione dell’intrapsichico attraverso l’Interpsichico, inteso come un tipo di funzionamento “a banda larga” (Bolognini, 2004), in cui coesistono stati della mente sufficientemente separati con altri in cui i confini tra il Sé e l’Altro sono più sfumati e le comunicazioni avvengono soprattutto a livello pre-verbale, chiamando in causa i livelli meno strutturati della mente. Quando ci si trova a lavorare a questi livelli precoci, in cui i confini sono fluidi e oggetto di continua rinegoziazione tra il Sé e l’Altro, tra l’interpsichico e l’intrapsichico, e sono maggiormente operanti livelli simmetrici di condivisione, il contributo richiesto all’analista è inevitabilmente più articolato e l’elaborazione controtransferale diventa uno strumento prezioso per dipanarsi nel groviglio delle proiezioni, delle identificazioni e delle identificazioni proiettive.
Questo avviene fisiologicamente con gli adolescenti, con cui gran parte del lavoro psichico deve avvenire nella mente dell’analista, che si trova spesso a dover offrire all’adolescente le immagini della sua elaborazione immaginativa (Bonaminio, 2012) come materiale da costruzione per una prima possibile simbolizzazione delle esperienze concrete. Queste immagini mentali dell’analista hanno a che fare con il paziente, in quanto si sono formate all’interno della relazione analitica, ma sono inevitabilmente improntate anche del mondo interno dell’analista, che utilizza le proprie emozioni e il proprio materiale rappresentativo nell’atto di dar loro forma.
Controtransfert, agito, enactment
Pur senza escludere che potesse anche costituire un’occasione di recupero di materiale inconscio rimosso, Freud considerava l’agire soprattutto come una resistenza al lavoro analitico (Freud, 1914, 1938). Nel solco da li tracciato, l’agire è stato a lungo ritenuto dagli psicoanalisti un indesiderabile incidente di percorso, un’interruzione nel processo analitico. Successivamente, soprattutto con la sua traduzione inglese come acting out (Pazzagli e Turillazzi Manfredi, 1984). il termine agire ha assunto la connotazione di un’azione impulsiva, e si è esteso fino ad includere il significato di un contenuto psichico che si esprime attraverso l’azione piuttosto che attraverso la parola, per una difettuale capacità di simbolizzazione dovuta sia ad eventi traumatici precoci che a funzionamenti mentali specificamente operanti in determinate fasi della vita, come per esempio l’adolescenza.
La connotazione negativa dell’agire si è progressivamente stemperata con la diffusione delle idee di Bion, in particolare della concezione dell’analisi come processo spiraliforme di espansione della pensabilità, all’interno del quale si svolge un continuo processo di risignificazione in après coup, che include tra i suoi obiettivi il raggiungimento di una integrazione sempre maggiore attraverso la riunificazione degli elementi scissi, compresi quelle che si manifestano sotto forma di agito (Turillazzi Manfredi, 1994). L’inclusione crescente di elementi preverbali e non verbali nel dialogo analitico, non più limitato al solo scambio di parole, ha ulteriormente contribuito a stemperare la connotazione negativa dell’agito, non solo di quello del paziente, ma anche di quello dell’analista, e a valorizzarne le potenzialità euristiche.
È naturale che gli analisti che enfatizzano gli elementi relazionali dell’analisi e la teorizzano come campo bi-personale (Baranger, 1964), come co-costruzione (Ferro, 1999; 2002) nel quale sia l’analista che il paziente sono sollecitati in modo complementare, siano inclini a ritenere che nella stanza d’analisi siano inevitabilmente messi in atto ruoli e sequenze relazionali (Sandler, 1976), che potranno venire compresi e interpretati solo in un secondo tempo, collegandoli con la storia personale del paziente.
E’ nell’ambito della crescente attenzione verso le continue micro-azioni che accompagnano il dialogo tra paziente e analista che è nato il concetto di enactment, “un atto il cui intento è quello di forzare un altro ad una determinata azione che corrisponda alla sollecitazione data, che può essere attuato sia con l’uso del linguaggio verbale che di quello gestuale” (McLaugh-lin 1991, 596). Questo termine, che “conferisce agli aspetti interattivi una sottolineatura maggiore di quanto non faccia il termine agito” (Filippini e Ponzi, 1993, 512), è stato creato proprio per indicare “i modi impalpabili in cui analista e paziente si influenzano in una complessa concatenazione di micro-azioni”, sorrette da motivazioni inconsce sia dell’analista che del paziente, e nella quale possono coagularsi le resistenze di entrambi. Inteso come emergenza di elementi inconsci, di affetti e proto-emozioni non ancora conosciuti, l’enactment socchiude feconde aperture alla comprensione in après coup di quanto è accaduto nella relazione analitica e al disvelamento di movimenti controtransferali non sufficientemente elaborati.
In un’ottica che valorizzi l’apporto dell’analista e della sua soggettività al processo analitico, si stempera inevitabilmente la concezione dell’analista come colui che decritta un copione già scritto a favore di un’idea dell’analista come co-attore, il cui apporto al copione può variare da un minimo – come accade nelle situazioni in cui prevale la ripetizione e l’agito è più lontano dalla possibilità di pensiero – ad un massimo – come si verifica nel gioco creativo – in cui l’interpretazione non significa tanto disvelare un senso già esistente ma sconosciuto al paziente, bensì interpretare, nel senso di mettere in scena, con qualche margine di “gioco”, un personaggio del suo mondo interno.
Aspetti controtransferali specifici nel lavoro psicoanalitico con l’adolescente.
Il lavoro con l’adolescente pone all’analista sfide specifiche, soprattutto perché lo confronta con la propria adolescenza e con tutto ciò che di essa viene riattivato, a partire dalla relazione che l’analista ha con il proprio corpo e con la propria sessualità (Nicolò, 1997). Lo costringe a interrogarsi su quello che ha potuto integrare e quello che ha dovuto rifiutare in se stesso, a chiedersi che cosa è ancora costretto ad evitare; e lo confronta con il ruolo che la sua adolescenza – inclusi i compromessi difensivi con cui ne è uscito – gioca attualmente nei suoi atteggiamenti verso la malattia mentale e la sessualità, normale e patologica.
Lavorare con gli adolescenti sollecita dunque l’analista a rivisitare la propria adolescenza ogni volta che si renda necessario per ridurre il rischio di agiti attivati da sentimenti di paura, odio, rifiuto o riprovazione di fronte a severe forme di patologia o a gravi acting. Questo lavoro – mai definitivo – di ricostruzione emotiva della propria adolescenza può esporlo alla riattivazione di intense fantasie adolescenziali, sessuali o aggressive, ad angosciosi terrori della follia, della confusione e della perdita di controllo sul proprio corpo e la propria mente (Laufer, 1997).
Esso costituisce peraltro un prerequisito fondamentale al lavoro con gli adolescenti, che possono permettersi di parlare apertamente del suo corpo e delle sue fantasie più intime solo con un analista che mantenga un contatto emotivo sufficientemente libero e vivo con le proprie fantasie, disperazioni ed eccitamenti adolescenziali. Questa capacità non può essere data per scontata, e va anzi continuamente riconquistata: specifiche difficoltà controtransferali possono derivare dal fatto che il lavoro analitico con l’adolescente espone l’analista a fantasie e tentazioni (omo)sessuali, che possono indurlo a sentire il trattamento come un mezzo per esplorare di nascosto il corpo dell’adolescente (Laufer, 1997); o venire eccitato da tentazioni pigmalioniche, onnipotenti e manipolatorie; o ancora, ritrovarsi in balia di emozioni di rivalità e odio verso i propri genitori, che credeva superati da tempo (Mastella e Ruggiero, 2000; 2005).
La centralità del lavoro di controtransfert nella psicoanalisi dell’adolescenza.
Il fatto che, nel processo adolescenziale, le problematiche identitarie siano centrali (Novelletto, 1984; Cahn, 1998; Levy, 2007) e che le angosce di annientamento e la patologia della rappresentazione di sé giochino nella maggior parte delle problematiche adolescenziali un ruolo di primo piano, accentua la dipendenza dell’adolescente dall’oggetto, sia nella sua funzione di ambiente che facilita (Winnicott) che di differenziatore di imago (Jeammet, 1992). L’elaborazione controtransferale diventa cruciale, perché è attraverso l’elaborazione degli indizi controtransferali e l’attenzione ai propri (contro)atteggiamenti che l’analista entra in contatto con alcuni degli affetti e delle situazioni patogene che avevano caratterizzato le relazioni dell’adolescente con l’ambiente familiare (Cahn, 2009); ed è attraverso l’elaborazione controtransferale che può iniziare a rendersene conto e a differenziarsene. Pertanto, la capacità dell’analista di concentrarsi anche su di sé, di lasciarsi sorprendere da pensieri improvvisi e prestarvi attenzione, di ascoltare le proprie emozioni, soprattutto se dissonanti o inattese, in breve la tolleranza del controtransfert e il tentativo di attribuirgli un senso, costituiscono un elemento cruciale e imprescindibile del lavoro analitico con gli adolescenti.
Nel mondo interno degli adolescenti, ancora fluido e in via di trasformazione, esperienze reali ed elementi fantasmatici formano un intreccio di non facile lettura e i genitori costituiscono oggetti soggettivi interni – esterni non ancora ben distinti da sé, che influenzano con le loro proiezioni gli adolescenti (Molinari Negrini, 1999) e i loro analisti. Si creano complesse identificazioni crociate, che, se non adeguatamente autoanalizzate, esitano in una ostruzione delle capacità rappresentazionali dell’analista, per l’emergenza di elementi inconsci che possono rivelarsi inaspettatamente e improvvisamente attraverso emozioni controtransferali o enactments. Un elemento specifico del lavoro analitico con gli adolescenti risiede nel fatto che il controtransfert verso l’adolescente include in modo complesso e articolato anche i suoi genitori, con cui l’analista ha una relazione non solo reale (primi incontri, contratto, etc…) ma anche fantasmatica. Nel lavoro con gli adolescenti, si possono riattivare conflitti non sufficientemente elaborati con i propri genitori, inconsciamente rappresentati da quelli del paziente, di cui è essenziale acquistarne coscienza perché si crei un “gioco” relazionale in cui analista e adolescente possano incontrarsi, districandosi da rigide identificazioni crociate. Per questo, il lavoro analitico con gli adolescenti richiede una buona elaborazione del rapporto con i propri genitori e una comprensione non superficiale del significato che hanno i legami e lo scioglimento di essi, nel duplice significato di affrancamento (dagli altri) e di lutto (per sé), sottolineato da Cahn (1997).
In adolescenza, più che in altre fasi della vita, l’analista non rappresenta solo un oggetto di transfert, su cui si catalizzano le relazioni oggettuali antecedenti con declinazioni affettive che rimandano alla ripetizione, ma anche un “nuovo” oggetto con cui possono essere vissute esperienze inedite che incidono sulla costituzione del mondo interno, ancora in formazione, e che improntano lo sviluppo del sé e del senso di sé. L’analista si trova così sul crinale tra la messa in atto di un ruolo assegnato inconsciamente dal paziente e la reinvenzione creativa del personaggio interpretato, tra il ruolo di vecchio oggetto che l’adolescente ha bisogno di assegnargli e la funzione di nuovo oggetto con cui l’adolescente può compiere esperienze inedite.
Spero che il materiale clinico che segue potrà illustrare quanto esposto finora.
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Osservazioni conclusive
Nel lavoro con gli adolescenti, ci troviamo frequentemente in contatto con livelli scarsamente strutturati della mente, confrontati con aree dello psichismo in cui i confini (tra mentale e corporeo, tra dentro e fuori, tra intrapsichico e interpsichico) sono sfumati, talvolta fino all’indistinzione, e cimentati da agiti pericolosi che possono essere molto angoscianti. In queste situazioni, l’analista può essere invaso, e qualche volta travolto, da emozioni cui potrà dare senso e rappresentazione solo dopo un prolungato e complesso lavoro elaborativo. Senza la possibilità di condividere emotivamente con il paziente condizioni prolungate di sofferenza del sé, l’analista non potrebbe fornirgli interpretazioni vitali e profonde, fondate anche su quello che sente e non solo su quello che può astrattamente capire. Credo che questo sia il senso profondo della convinzione di Winnicott che l’analista debba “restare vulnerabile” (Winnicott, 1960) e che il paziente debba poter sentire le emozioni dell’analista (1947).
E’ in quest’ottica che il contro-transfert costituisce uno strumento prezioso di comprensione degli affetti e di ampliamento della funzione analitica, una bussola che – soprattutto quando ha a che fare con funzionamenti mentali instabili, che veicolano nel transfert elementi frammentati e scarsamente simbolizzabili, come accade fisiologicamente con gli adolescenti – consente all’analista di formulare delle ipotesi su quanto è presente nel mondo interno del paziente.
Il contro-transfert non può tuttavia essere utilizzato in modo automatico come indicatore del mondo interno del paziente, perché spesso segnala l’emergenza di elementi inconsci resistenziali dell’analista. Al proposito, è sempre Winnicott a ricordarci che oltre a “rimanere vulnerabile”, l’analista deve anche “mantenere un atteggiamento professionale” (Winnicott, 1960), che consiste nella sua tecnica, nel lavoro ch’egli fa con l’intelletto” (208). E’ l’esercizio della funzione analitica, centrata sull’ascolto del discorso del paziente oltre che sull’auto-ascolto dell’analista a rendere asimmetriche le posizioni di paziente e analista, che svolgono nel processo analitico funzioni differenti. Questa è la ragione per cui l’autoanalisi dell’analista deve essere sempre e comunque “in funzione del paziente” (Bollas, 1987).
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1 Secondo questo modello, il lattante, supposto possedere fin dall’inizio della vita la capacità di “suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere” (1962, 65), evacua nella mente di lei quanto risulta indigeribile alla propria, ed effettua così una forma primordiale di comunicazione, fondata sul sentire e sul fare sentire. A questa la madre risponderà con la propria funzione di reverie, volta a contenere, trasformare e dare un senso agli elementi sensoriali grezzi del bambino, in modo che egli non ne sia sommerso e intossicato.
2 Basti pensare al ruolo cruciale di rispecchiamento materno nella prima infanzia (1957) e a quello dell’”oggetto che tiene” in adolescenza (Winnicott, 1961, 1968a), fondamentale per l’integrazione dell’aggressività vitale (1968b).
3 In quest’ottica, che racchiude un implicito ridimensionamento della centralità dell’interpretazione come fattore terapeutico e valorizza l’apporto della specifica soggettività dell’analista nel processo terapeutico, il transfert si è andato via via definendo come evento determinato non solo dalle esperienze passate ma influenzato anche dall’esperienza attuale con l’analista, e dalle caratteristiche di quest’ultimo.