relazione presentata al Seminario ASL –SPI
7 dicembre 2012
Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini –Via de’ Malcontenti, 6 – Firenze
Quando uno psicoanalista parla del transfert parla non solo della storia della psicoanalisi come disciplina e come istituzione, ma anche, inevitabilmente, della propria storia personale all’interno della comunità psicoanalitica, cioè implicitamente o esplicitamente, di tutti quelle relazioni, quindi anche di quei transfert, che hanno segnato i passaggi più significativi della propria vita professionale e affettiva all’interno della società. Per questo motivo al contenuto di questa relazione hanno contribuito due diverse bibliografie. Una bibliografia “tecnica” sul transfert, tutto quello che ho letto nel corso della mia formazione, della mia vita professionale e in particolare quello che ho riletto in questo frangente per scrivere questo intervento. Ma soprattutto, proprio perché si parla di transfert, ha contribuito una bibliografia che non troverete citata nel dettaglio, una bibliografia che definirei affettiva, fatta di maestri, figure di riferimento alle quali sono in modi diversi, ma speciali, debitrice. E proprio sul transfert, forse non casualmente, questi maestri per me sono stati principalmente donne: colleghe psicoanaliste che prima che colleghe sono state per me mentori, guide, punti di riferimento oltre che, appunto, preziose fonti bibliografiche. Molto di quello che vi racconterò oggi è il frutto delle mie conversazioni con loro, oltre che della lettura dei loro lavori. E’ il frutto dei miei scambi con Stefania Turillazzi, della lettura dei suoi lavori fondamentali sul transfert e il controtransfert, delle sue fulminanti osservazioni sul funzionamento della mente, a partire dalla mia; è il frutto di una lunga amicizia e delle incredibilmente fertili conversazioni con Maria Ponsi e Sandra Filippini, oltre che del loro lavoro sul caleidoscopio del transfert; è il frutto di una indimenticabile supervisione con Luciana Nissim, che ha portato per tutta la vita gli effetti di un transfert distruttivo tatuati sul braccio. E siccome sono una persona fortunata dal punto di vista degli incontri, devo molto a moltissimi altri colleghi, alcuni dei quali sono qui con me oggi, da cui ogni giorno attingo risorse e conoscenze.
E poi ci sono tutte quelle persone che non potrò mai nominare dato il vincolo di riservatezza che ci ha legato; quelle persone che hanno scelto di condividere con me le loro vite, le loro preoccupazioni, che mi hanno aperto le loro case interne presentandomi figli, mariti, mogli, genitori, che lo hanno fatto sperando che io potessi avere abbastanza passione da capire le loro passioni, ma abbastanza giudizio da non farmene travolgere.
Voi vi domanderete: ma perché questa stamattina ci mostra il suo album di famiglia invece che spiegarci cos’è il transfert? Perché in questa breve conversazione vorrei mostrarvi non soltanto cosa il transfert sia come costrutto della psicoanalisi, ma soprattutto di cosa sia fatto, di come, ad esempio, le nostre teorie sul transfert siano inevitabilmente influenzate dal nostro transfert sulle teorie, come ci insegnano Rossi Monti e Foresti e di quali strumenti ci dobbiamo attrezzare per renderlo visibile prima e comprensibile poi.
Che cos’è dunque il transfert? Senza dubbio uno dei concetti psicoanalitici più universalmente noti come l’inconscio o il sogno, della cui materia è certamente fatto. Per molti autori il transfert ha acquistato un significato molto particolare, a volte più ristretto a volte più ampio: per alcuni il transfert designa tutti i fenomeni che definiscono la relazione tra l’analista e il suo paziente, per altri è solo un parte, ma quella parte che ha senso. Per alcuni il transfert è quindi il senso, mentre per altri è un travestimento, una maschera, una simulazione. Altri poi pensano che sia quello che i filosofi chiamano destino.
Del transfert tutti sanno qualcosa, anche i non addetti ai lavori; transfert è una parola entrata profondamente nella rete di significati del linguaggio comune, come del resto molti altri oggetti psicoanalitici: inconscio, difesa, pulsione, complesso edipico. Ma niente può risultare difficile come definire un concetto che lì per lì sembra tutto e dopo è soltanto un’ombra che sparisce quando crediamo di averla afferrata. Il che significa anche che la cosa può essere risolta in cinque righe o diventare sterminata come è ormai la letteratura psicoanalitica, e non solo psicoanalitica, sul transfert (2327 articoli in cui il tema ruota intorno al transfert).
Nella stessa opera di Freud il concetto di transfert, seppure scorra sotterraneo, si può dire che sia ubiquitario come concetto di fondo anche quando non è l’oggetto principale della sua indagine. Lo si intravede in trasparenza in tutti i suoi scritti perché il transfert è una specie di marchio di fabbrica della psicoanalisi: la caratterizza e ne influenza la teorizzazione anche quando non viene esplicitamente citato.
Quindi la domanda è semplice, ma la risposta è più complessa di quanto si potrebbe immaginare.
Come ci ricorda Stefania Turillazzi il pensiero psicoanalitico è tale in quanto ha la peculiarità di pensare se stesso ed è per questo che la teoria del transfert comincia con Freud. Sappiamo che può essere messo in evidenza anche da tecniche e discipline che non derivano affatto dall’analisi. Tutte le relazioni umane possono utilizzarlo a loro insaputa e dipendere da esso. Ma per il fatto che la psicoanalisi ha enunciato il concetto di transfert e ne ha ripetutamente riconosciuto l’importanza, si è assunta l’autorità e la responsabilità e quindi l’obbligo di chiarirlo. Eppure non è stato facile.
Freud si trovò a dover ammettere che durante lo svolgimento della terapia, oltre alla restituzione del testo originale alla nevrosi e alla ricostruzione integrata dei ricordi, qualche altra cosa emergeva. Emergevano nuove manifestazioni psichiche concernenti questa volta il rapporto personale tra paziente e analista. Queste nuove manifestazioni inopportune, inattese e impreviste venivano a complicare il lavoro del terapeuta, occupato fin qui a ricostruire la trama dei ricordi, partendo dai loro resti. Ma il transfert è un fenomeno universalmente in azione in ogni relazione umana significativa; anzi, volendo generalizzare ulteriormente, sta nel cuore dell’intenzionalità umana tout court, come aspetto della tensione presente-passato-futuro entro cui essa inevitabilmente si costituisce. Come Freud stesso del resto ha affermato più volte a partire già dal poscritto al caso di “Dora” (OSF, 4, 398), la situazione psicoanalitica non “crea” il transfert, ma le condizioni per renderne visibile e riconoscibile il movimento (Barale, 1993 Rivista di Psicoanalisi, “Transfert: dalle origini al caso di Dora”).
La narrazione della “scoperta” del transfert è notissima e fa parte, in un certo senso, della mitologia di fondazione della psicoanalisi: comincia con la prima “Talking cure” della storia, la terapia che Josef Breuer intraprese con la paziente universalmente nota come Anna O. e, più precisamente, con la fuga di Breuer da quello che lui stesso definì “untoward event” (che in inglese significa inaspettato, ma anche disdicevole, sconveniente) (OSF, 7, 385). Questo evento disdicevole e inatteso altro non era che un transfert erotico esploso durante il trattamento (1880-82) di Anna. La fuga si accompagnò però alla percezione che si fosse trattato tuttavia, come lui stesso scriverà anni dopo, dell’incontro con “la cosa più importante che noi due — (lui e Freud) — daremo al mondo” (OSF, 10, 190). La decisione viceversa di Freud fu di non indietreggiare e di cercare di considerare scientificamente anche questi “contrattempi”.
Che cosa è dunque il transfert? Il termine tedesco usato da Freud, ubertragung, significa innanzitutto trasferimento e nella teoria psicoanalitica classica il T. viene considerato appunto come una forma di trasferimento, un “falso collegamento”, per cui sentimenti associati in origine a figure affettivamente significative del passato vengono distaccati dal loro contesto e oggetto originario e rivissuti altrove con qualcun altro. Nelle fasi precoci della storia di un individuo, l’affetto si lega a una figura primaria, nella maggior parte dei casi il genitore, ma poi nel corso della vita quello stesso affetto può comparire di nuovo, inappropriatamente, in una relazione con una persona differente (ecco il senso del termine inglese: Inaspettatamente e disdicevolmente). In questo contesto, il soggetto può credere che l’affetto che prova sia suscitato da questo nuovo oggetto della sua relazione, senza di fatto poterne “vedere” la reale, passata, provenienza. Essenzialmente si reagisce nei confronti di una persona del presente, come se questa appartenesse al passato.
Freud nel 1912, osservando come nella terapia psicoanalitica gli affetti siano “spostati” da una figura genitoriale sulla figura del tarepeuta, negli scritti sulla tecnica ed in particolare “sulla dinamica del transfert”, si pone il quesito di come mai il transfert sia allo stesso tempo il veicolo essenziale della cura e la maggiore fonte di resistenza al trattamento.
Questo problema sembra chiarirsi quando si riconosce la presenza nel transfert di sentimenti sia positivi che negativi; le manifestazioni positive sono quelle che spingono in avanti il trattamento prima che le componenti negative compaiano sottoforma di resistenza (come il restare il silenzio o lo stop al flusso di associazioni).
Inizialmente seccato per questa “complicazione”, di cui mette in rilievo la frequenza, Freud si accorge presto che essa è della stessa natura della formazione dei sintomi e implica gli stessi problemi. Insomma, niente di scandaloso e neppure di eccezionale; nessun “lavoro in più”. In fondo non si tratta che di una ulteriore declinazione di quella repressione di un desiderio penoso del passato e del relativo eccitamento che è all’origine del fenomeno isterico (OSF, 2, 252-256). La complicazione può essere superata rendendo la paziente cosciente del falso nesso instaurato.
Questo primo, rudimentale abbozzo di ciò che sarà il “transfert” si colloca subito all’interno di una dialettica complessa. C’è il tema della resistenza (transfert come resistenza e contemporaneamente oggetto privilegiato per individuare e superare la resistenza), del conflitto, del rapporto passato-presente (e implicitamente della ripetizione), dell’importanza della sessualità; c’è il riconoscimento della autonomia della realtà psichica (ciò che conta non è quanto “oggettivamente” la paziente sia stata trascurata ma il fatto comunque che si sia sentita così…); c’è perfino un indiretto abbozzo di riconoscimento della partecipazione dell’atteggiamento del medico nell’organizzarsi dei fenomeni transferali (sia pure assai timido rispetto alla ribadita loro oggettività: “Posso presumere che ogni volta che la mia persona si trovi coinvolta in un modo simile… si verifichi un falso nesso”).
Certo, il transfert è ancora ben lungi dall’essere centrale nella cura ed è trattato a fianco di altre formazioni, come un sintomo o meglio come una difesa particolare. Anche la sua estensione non è ancora percepita pienamente. D’altronde, anche in seguito, sarà sempre ben lontano dall’identificare tutta la relazione analitica con il transfert e queste antiche distinzioni possono essere viste anche come un primo e primitivo abbozzo di una discussione che continuerà sotto altre forme nella letteratura successiva: ad esempio tutta la questione del rapporto fra Relazione transferale/Relazione reale.
Innanzitutto va detto che il termine reale è confusivo, perché la relazione analitica, nel suo complesso, è essa stessa una relazione reale caratterizzata da un comune obiettivo, per cui sarebbe meglio parlare, come ha suggerito Gill (1982), di relazione realistica. Sono soprattutto alcuni esponenti della Ego Psychology che distinguono tra relazione transferale, distorcente, e relazione reale, depositaria dell’alleanza terapeutica. Una distinzione netta che può essere a volte ingannevole, come nei casi in cui si configura una subdola pseudo-alleanza terapeutica, che in realtà può essere variamente connotata da aggressività occulta, ipocrisia e compiacenza (Etchegoyen, 1986, 288). Più utilmente si può sostenere, con Etchegoyen, che nel comportamento «c’è sempre un poco di irrealtà (transfert) e un poco di realtà; si utilizza sempre il passato per comprendere il presente (esperienza) e per deformarlo (transfert). Sarà allora una questione da decidere caso per caso, di momento in momento, se porre l’accento sull’uno o sull’altro.[…] Questi due aspetti coincidono con la nevrosi di transfert e con l’alleanza terapeutica (o di lavoro). A mio avviso è illusorio vedere l’una senza l’altra» (Etchegoyen, 1986, 290). La qual cosa richiede che l’analista sappia muoversi con naturalezza tra diversi livelli di realtà, nel senso di riconoscere e tollerare il paradosso della coesistenza di una relazione asimmetrica all’interno del setting e di una relazione paritaria, realistica, all’esterno di esso (Modell, 1990).
Ma come si lavora con il transfert secondo questa classica concettualizzazione freudiana? Freud raccomandava fortemente di non fare interpretazioni di aspetti profondi di qualunque tipo fino a che non si fosse stabilito un appropriato rapporto con il paziente. Se il medico, dice Freud, evita atteggiamenti giudicanti e mostra interesse e simpatia, il paziente formerà spontaneamente un attaccamento basato “sulle rappresentazioni di quelle persone da cui è solito aspettarsi di essere trattato con affetto”.
Da questo punto di vista, una volta che si sia strutturato un attaccamento positivo, l’analista sarà fornito di una leva per interpretare le inevitabili resistenze che appariranno sotto forma di transfert negativo.
Il transfert positivo, irreprensibile come lo chiama Freud, sarebbe il collaboratore silenzioso dell’analista. Si è fatto carico della fiducia iniziale e dell’accettazione delle piccole regole (numero delle sedute settimanali, onorari, etc.) che rendono possibile il trattamento. Il paziente associa liberamente, racconta sogni, fa atti mancati. Così si va scoprendo l’inconscio fino a un punto in cui il transfert cessa di essere docile, cessa di essere silenzioso e occupa il campo della cura come resistenza.
Con lo svilupparsi dell’analisi, si può vedere come la malattia cambi bruscamente di senso, riferendo a questo punto tutte le sue manifestazioni alla relazione tra lo psicoanalista e il paziente. Quando il transfert arriva ad acquisire questa intensità può provocare un notevole ostacolo e ritardo alla investigazione ed elaborazione della realtà psichica del paziente.
La cura di questa nevrosi artificiale, nota come “nevrosi di transfert”, coincideva nella concezione tradizionale della cura analitica, con quella della nevrosi primitiva. Il soggetto che riusciva a liberare i suoi comportamenti dalle tendenze rimosse nelle sue relazioni con l’analista avrebbe poi mostrato questa stessa normalità in tutti gli atti della sua vita una volta terminato il trattamento. Questo nel momento del massimo ottimismo freudiano.
Ma allora bisognerebbe intendere l’analisi più o meno in questo modo: il paziente comincia l’analisi con una nevrosi con sintomi, questa si trasforma in una nevrosi artificiale, nevrosi di transfert, la quale comprende tutto il processo analitico. Alla fine dell’analisi questo transfert si dissolve.
Questa concezione del trattamento subirà numerose evoluzioni e in relazione alle vicissitudini del transfert ne potremmo identificare soprattutto due: la prima in cui il transfert viene concepito prevalentemente come ristampa, riedizione, una copia che ripete un modello senza quasi modificarlo (in cui l’espressione di questo nota come coazione a ripetere si fonda sulla pulsione di morte) e una seconda concezione che considera il transfert piuttosto come un rifacimento che si lega ad un aspetto nuovo del presente considerando le caratteristiche reali attuali dell’oggetto (che potremmo dire rivaluta nella coazione a ripetere gli aspetti riparativi e creativi).
Abbandonata la visione restrittiva del transfert come ostacolo e poi come riedizione o cliché del passato, l’area semantica del termine si allarga (Gribinski, 2005, pag.27-8) seguendo anche le sfumature della parola tedesca che vuol dire trasferimento, ma anche traduzione, comunicazione, trasmissione (nel senso di contagio o contaminazione), proiezione, ma anche, o soprattutto, spostamento e trasporto.
Nella sua introduzione al volume Attualità del transfert Anna Nicolò ne fa una rapida carrellata: da Anna Freud che ne parla essenzialmente in termini di proiezione, alla scuola Kleiniana che considera il transfert come un fenomeno che informa di sé tutta la seduta, ai post-Kleiniani che nella definizione di transfert includono qualsiasi cosa il paziente porti nella relazione. E se pensiamo al significato di transfert come trasporto troviamo Bion che si riferisce al transfert come ad un’esperienza di transito (1977), un’idea che il paziente ha nel cammino verso un altro posto e poi con il concetto di trasformazione la più nota ed originale concettualizzazione di Nino Ferro che usando le sue famose metafore del vivere quotidiano afferma che il transfert è appunto un “transfer”, un bus che “fa il giro da un posto all’altro, nel campo orizzontale e verticale, dal lì e allora al qui e ora (Ferro, 2006) il mezzo che ci permette di conoscere il paesaggio interno del paziente e di disegnarne insieme una mappa.
Negli ultimi venti anni poi seguendo la parallela trasformazione della psicoanalisi da una concezione mono-personale a una concezione prima bi-personale e poi interpersonale della relazione, il transfert si è arricchito di nuovi aspetti e soprattutto ha mostrato il suo indissolubile legame con il controtransfert, concetto altrettanto discusso. Stefania Turillazzi diceva nelle sue lezioni che agli esordi parlare di controtransfert dell’analista era come affermare che una nave potesse soffrire il mal di mare. Uno scandalo. Ma non mi spingerò oltre in questo complesso argomento perché esula dagli scopi del mio intervento.
Dal momento che stamani parlo ad una platea di professionisti della salute mentale che esercitano il loro ruolo terapeutico prevalentemente all’interno del servizio pubblico, ho pensato che nel vastissimo panorama dei possibili approfondimenti in tema di transfert, potesse essere utile spendere quest’ultima parte del mio intervento parlando di due concetti che sono accomunati dall’essere abbastanza “recenti” e collegati tra loro dallo slancio che hanno dato alla ricerca e dalle importanti ricadute cliniche a partire dal tema del transfert.
Mi riferisco al concetto di inconscio non-rimosso e ad alcune idee derivate dalla teoria attaccamento.
I recenti sviluppi delle neuroscienze cognitive hanno evidenziato l’importanza di modificare le reti associative (Westen e Gabbard, 2002a, 2002b), grazie alla fiorente letteratura sulla memoria implicita – memoria osservabile nel comportamento ma di cui la mente non è conscia (Roediger, 1990; Schacter, 1992, 1995, 1998).
Di particolare importanza, dal punto di vista psicoanalitico, è la memoria associativa, un sottotipo di memoria implicita che riguarda i collegamenti inconsci tra i processi cognitivi, affettivi e psicologici che sono stati associati fra loro attraverso l’esperienza. Queste reti sono inconsce sia che siano conflittuali sia che si cerchi di difendersene: non abbiamo accesso ad esse e non conosciamo mai il loro stato di relativa attivazione o disattivazione in un dato momento, il che determina gli effetti sull’attività mentale in corso e sul comportamento (come le reazioni di transfert). Dal momento che le reti inconsce guidano la maggior parte dei nostri pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti, nella gran parte dei casi costituiranno l’oggetto su cui focalizzare principalmente l’azione terapeutica.
La scoperta di questa forma di memoria ha allargato quindi il concetto di inconscio da luogo del rimosso, esilio della parte temporaneamente sconfitta di un conflitto, a luogo del biologicamente non consapevole (Cono Barnà, 2007). Questa memoria implicita, cioè non consapevole né recuperabile sotto forma di ricordo, sarebbe l’unica forma di memoria presente nei primi due anni di vita in quanto localizzata funzionalmente in strutture encefaliche sottocorticali che sono le uniche già maturate in quel tempo, laddove la memoria esplicita, più consapevole, si localizza fondamentalmente nei lobi frontali che si sviluppano più tardi (Schacter, 1996; Siegel, 1999).
La memoria implicita si attiva con la memoria sensoriale dell’ambiente e non si accompagna con la coscienza di ricordare; si struttura come memoria a lungo termine e contiene le basi di diversi apprendimenti. Non è, come talvolta si tende a credere, una forma di memoria esclusivamente procedurale e quindi squisitamente cognitiva; è sempre memoria affettiva, nel senso che è determinata e determina la qualità emotiva dell’esperienza ed è una funzione della mente che attraversa tutto il ciclo della vita rimanendo plastica e quindi capace di trasformazioni.
L’importanza e le implicazioni di queste acquisizioni sulla memoria sono particolarmente rilevanti per il nostro lavoro clinico in quanto danno centralità all’esperienza relazionale. Le esperienze sensoriali parteciperebbero infatti, già a partire dalla vita fetale, alla formazione di una memoria affettiva di base, fondamentale per l’organizzazione delle prime rappresentazioni (Mancia, 1981).
Se quindi le prime tracce di memoria dell’interazione tendono a costituire degli schemi iniziali di orientamento nel mondo e se queste tracce sono plastiche, esse possono essere raggiunte e trasformate con la stessa modalità con la quale si sono formate, sia attraverso il nostro stesso stare al mondo, lo stare con gli altri ed il modo degli altri di stare con noi stessi.
La memoria implicita sembrerebbe dunque il luogo elettivo del cambiamento essendo contenuti in essa gli schemi relazionali primari, cioè tutte quelle rappresentazioni inconsapevoli di Sé con l’altro che ci portiamo nelle successive relazioni della nostra esistenza. Ciò costituirebbe in realtà la radice del transfert che connota tutti i nostri incontri quotidiani e, in specifico, la relazione terapeutica.
Ogni incontro umano, al di là della specificità della relazione terapeutica, può rappresentare, da questo punto di vista, un’esperienza riparativa, ma le caratteristiche della relazione terapeutica (contenuti e modi del colloquio, ritmo e cadenza delle sedute, la sicurezza creata dal setting, il tempo, la stanza) attivano tutti i livelli di memoria. Sono elementi che sollecitano la memoria esplicita e consapevole, ma anche la memoria implicita e possono produrre cambiamenti significativi. Sono quelli che Stern chiama “moments of meanings”; essi hanno la potenzialità di trasformare significativamente il transfert dominante (Weiss, 1993).
Un modello di base sicura per il processo terapeutico
Il concetto di inconscio non-rimosso come dicevo ha molto a che vedere con l’attaccamento, perché Bowlby riteneva che il transfert fosse la manifestazione diretta nel corso delle situazioni interpersonali correnti, di un’insieme di aspettative, attribuzioni, credenze e attitudini, implicite o inconsce, incorporate come Modelli Operativi Interni di sé e degli altri. Questi clichè, prodotto delle interazioni precoci con le figure di accudimento, ma anche modificati dall’impatto con il mondo interno e i suoi contenuti (fantasie, desideri ecc.) sono portati avanti nel corso dello sviluppo e influenzano tutte le relazioni, non solo quella con il terapeuta.
Il primo compito dell’analisi, secondo Bowlby, è quello di stabilire una base sicura. Questo scopo si ottiene per mezzo di quelli che vengono abitualmente definiti parametri: la regolarità e la frequenza delle sedute, la continuità e la confidenzialità delle sedute, la stabiltà del setting, la sensibilità responsiva dell’analista ed il graduale consolidamento di una salda alleanza terapeutica.
Di ritorno questa base sicura diventa la piattaforma per l’esplorazione psicoanalitica.
Il secondo compito per B. consiste nell’assistere il paziente nel comune lavoro di esplorazione della sua situazione attuale: In quali situazioni si trova coinvolto, quale ruolo svolga egli stesso nel creare tali situazioni, secondo quali criteri egli sceglie le persone con le quali mettersi in relazione, come queste persone gli rispondono e quali sono state le conseguenze del suo comportamento. Questo implica l’osservazione delle strategie che le persone mettono in atto per regolare il contatto, la vicinanza emotiva e la responsività nelle relazioni di attaccamento attuali.
Allo stesso tempo è necessaria una esplorazione delle modalità attraverso le quali gli eventi interpersonali possano scatenare o riattivare ansia, affetti dolorosi o sintomi e di come il paziente parli e rifletta sulle esperienze e intenzioni proprie e su quelle delle persone che interagiscono con lui/lei.
Il terzo compito per Bowlby è quello di assistere il paziente nel cercare di comprendere come le sue esperienze, i pattern relazionali e i sintomi, possano essere spiegati nei termini della sua storia di attaccamento, in particolar modo attraverso ciò che ricorda della propria infanzia e adolescenza. Nel fare questo il paziente è invitato ad elicitare ed esaminare i propri modelli operativi interni e come questi influenzino il suo modo di sentire, di comportarsi e di reagire e prevederne gli esiti nel presente. Nel corso del lavoro clinico, per esempio, se un paziente disconosce un’esperienza emozionale nel corso della seduta, io mi posso domandare se questa fosse un’emozione che la madre del paziente potesse immaginare ed accogliere o se, al contrario, l’esprimere questa emozione possa aver comportato una sottile forma di abbandono.
Questo possibile modello di base sicura del processo psicoanalitico non privilegia lo sviluppo di una “nuova relazione” o di una “esperienza emozionale correttiva”, come qualcuno potrebbe pensare, in sostituzione dei processi di insight e di comprensione. Queste due dimensioni del processo psicoanalitico potremmo dire che procedono mano nella mano e sono entrambe indispensabili. Lichtenberg sintetizza questo concetto affermando che il cuore del processo psicoanalitico e più in generale terapeutico, consiste nello sviluppo di un’atmosfera di sicurezza mentre si mantiene uno spirito di ricerca.
Lo stabilire una tale atmosfera di sicurezza può sembrare il compito ovvio e centrale di una terapia che ha successo, ma non essere così facile da realizzare. Noi siamo, allo stesso tempo, affrontati e sfidati da pazienti che portano nell’incontro con noi aspettative, attribuzioni e attitudini contraddittorie che possono essere caotiche e confusive. O possiamo trovarci alle prese con pazienti che si sentono facilmente spaventati, vergognosi o umiliati o che sono preda di profonde disperazioni o suicidiari. In questi casi i pazienti fanno in terapia quello che è stato fatto loro dalle figure di attaccamento e in queste circostanze la nostra capacità di rimanere obiettivi, empatici o calmi può essere messa a dura prova.
Bowlby pensava che spesso il paziente sa quello che l’analista non sa e che il compito dell’analista consiste nel riuscire a mettere il paziente in contatto con la sua propria conoscenza delle cose. Attraverso il dialogo, la scoperta comune, un reciproco feed-back che corregge gli errori, il monitoraggio cognitivo e un pensiero riflessivo condiviso, paziente ed analista possono giungere ad una qualche comprensibile e condivisa “verità”. Questo obiettivo può essere più facilmente raggiunto se l’analista non assume di sapere la verità riguardo al paziente e evita di pensare che le proprie interpretazioni veicolino il peso di una indiscutibile autorità.
Sotto molti aspetti l’attenzione ai processi narrativi che è implicita in tutti gli strumenti di ricerca fondati sulla teoria dell’attaccamento, operazionalizza potremmo dire ciò che è sempre stato considerato intrinseco ad un buon ascolto clinico: l’ascolto dei cambiamenti nella voce, delle contraddizioni, lapsus, irrilevanze e fluttuazioni nella struttura e nella organizzazione del discorso. Questa modalità di ascolto in momenti in cui non sia possibile riflettere sull’esperienza o mentalizzarla, offre al terapeuta una visione di come il paziente difenda se stesso dall’intrusione, nel pensiero cosciente, di sentimenti o ricordi inaccettabili. Questo ascolto offre un mezzo per comprendere come l’individuo viva nel mondo, cosa può tollerare di sentire, e cosa ha bisogno di far provare agli altri per sentirsi personalmente al sicuro. In altre parole aiuta il terapeuta a capire che cosa può essere conosciuto, cosa può essere sentito, cosa può essere detto e cosa può essere contenuto.
Prestare attenzione a cosa può o non può essere detto, e a come viene detto, aiuta anche il terapeuta ad immaginare l’esperienza precoce del paziente in un modo potente e diretto.
Se vogliamo che il transfert si dispieghi con tutta la potenza e la pregnanza della relazionalità inconscia del paziente, in analisi, come in qualunque psicoterapia, ascoltare è più importante che parlare. In realtà molto di quello che diciamo quando siamo con un paziente è teso proprio a dimostrare che stiamo ascoltando.
I suoni si possono sentire, i significati si devono ascoltare e ascoltare implica un’attività estremamente complessa; in analisi, come in ogni contesto in cui si voglia cogliere il tranfert, non si ascolta con le orecchie, ma con la mente. Quello che distingue immediatamente l’ascolto analitico da quello di una qualunque altra conversazione sta, soprattutto, nell’attenzione alla molteplicità dei livelli del discorso che si ascolta.
In una conversazione analitica o terapeutica si ascoltano le parole, si ascolta il primo, immediato e manifesto significato che le parole del paziente veicolano, il loro significato condiviso, ma mentre si ascolta questo, già sentiamo che quelle parole possono contenere sfumature di significato più personale e idiosincrasico. Questo è tanto più vero con i pazienti più gravi, come ci ricorda Stefano Calamandrei (2008), dove “la difficoltà a capire, a stare con il paziente, è dovuta anche al confronto con la sua particolare organizzazione mentale che segue, si potrebbe dire, linee di riferimento differenti, che danno sfumature di significato diverse dal nostro interiore e consolidato ‘previsto’”(pag.862).
Ascoltare analiticamente significa distinguere voci diverse, alcune distinguibili, se si sa cosa ascoltare, altre appena udibili, altre ancora mute, talvolta prigioniere nel corpo. Per questo abbiamo un setting, perché, come il buio in sala (felice metafora di Flegheneimer), ci permette di dimenticarci della realtà esterna, che sia giorno o che sia notte, sia d’estate o sia d’inverno, e di immergerci nella trama. Other times, other realities, dice Modell.
Questo punto mi pare di grande rilevanza teorica se si tiene anche conto che alcuni analisti relazionali che hanno lavorato soprattutto sugli stati traumatici, sono stati spinti a rivedere la nostra teoria generale della mente, passando da un modello basato sulla rimozione e organizzato intorno a fasi stratificate di sviluppo, ad un modello molto più fluido. In questo modello più recente, che Messler Davies (1996) ha paragonato ad un caleidoscopio, si ipotizza che la mente consista di “intricati schemi, svariati, ma di numero finito, che si combinano e si riconfigurano di momento in momento”. Questa concezione che la Davies chiama “inconscio relazionale”, rappresenta un modello della mente basato sulla dissociazione piuttosto che sulla rimozione. Tale modello descrive una organizzazione basata non su di una mente inconscia e su una più vicina alla superfice della coscienza, bensì su livelli multipli consci e inconsci, “una rete di comprensione e di attribuzione di significato, legata per via associativa e variamente organizzata”. Questa impostazione teorica richiede sia al paziente che all’analista di essere in grado di tenere, contenere e giocare con una molteplicità di stati della mente e di preparare un palcoscenico sul quale la multiformità “dei personaggi dell’analisi” possa trovare adeguata rappresentazione.
Si può arrivare ad una completa elaborazione del transfert?
Forse ci possono ben accompagnare le parole di Barale: “ Questa elaborazione non è mai lineare, nella relazione analitica, come nella vita; non procede trionfalmente dal prima al dopo, dall’impensato al pensato, dall’agito o dalle memorie al ricordo, come una catena di anelli ininterrotta; è piuttosto un movimento reticolare incerto, contraddittorio ed appassionato, che si muove ritornando continuamente su se stesso, oscillando tra piani, livelli, temporalità diversi e che lascia in ogni caso e forse necessariamente, scarti, buchi, margini di silenzio e di impensabile. In questo movimento ogni illuminazione produce, su altri piani, oscurità, così come ogni trasformazione in pensiero o ricordo contiene, di per se stessa, su altri versanti, qualche dose di realizzazione e di agito”.