Testo della relazione di Antonio Alberto Semi presentata al convegno “Metodo psicoanalitico ed esame di realtà “.
Firenze, sabato 14 aprile 2018
Inizio ringraziando dell’invito ed entrando subito nel merito. Sono qui, seduto a questa sedia con davanti a me molte persone, in una stanza ampia. Al mio fianco persone amiche. Si tratta di una serie di dati percettivi ineludibili mescolati però ad altri elementi di pensiero, che consistono in giudizi e in altre rappresentazioni e affetti. Un giudizio è per esempio la qualifica di ‘amiche’ alla dottoressa Sessarego e alle altre dottoresse e, inevitabilmente, l’affetto che si unisce a questa qualifica. Come dire che la storia del mio rapporto con loro interferisce con o altera o aumenta lo spessore della percezione. Viceversa, vedere molte persone a me non note può stimolare la mia curiosità ma non altera la percezione, in prima battuta. Beninteso poi ci sono anche qui dei giudizi: dire che la stanza è ‘ampia’ implica un giudizio sulle dimensioni, ad esempio. Perfino dire la parola ‘stanza’ implica un giudizio qualificativo sulla percezione. Potevo dire “aula” o “classe”.
Quel che voglio dire è che anche un banale esame della realtà esterna o materiale si manifesta subito attraversato – e in qualche modo inquinato o comunque mescolato – da svariati elementi psichici, affettivi ed ideativi. Il problema scientifico della psicologia in generale ma in specifico della psicoanalisi è dunque quello di creare le condizioni per poter osservare la realtà distinguendo le diverse componenti che concorrono a formare la nostra percezione. Per noi, in particolare, si pone il problema di come fare per distinguere gli elementi diversi presenti e mescolati nell’attualità dell’attività psichica cosciente. Il metodo psicoanalitico è nato a questo scopo: per osservare gli elementi psichici ma sulla base della realtà, insomma man mano è stato elaborato per essere al massimo realistico, finalizzato ad eliminare al massimo gli ‘inquinamenti’ possibili per consentirci di osservare e comprendere i processi psichici.
Vediamo allora che il nostro metodo è in effetti a questo scopo rigoroso ( se solo si ha voglia di seguirlo), ma che però non è semplice. Esso si basa sulla osservazione e la comunicazione dei pensieri. In questo è realistico, perché esso si basa sulla eliminazione di alterazioni evidenti dell’esame di realtà da parte dell’osservatore – alterazioni evidenti ma anche necessarie, come vedremo, nella vita quotidiana.
Mi soffermo su questo punto preliminare perché esso è alla base della costituzione e della progressiva elaborazione del metodo psicoanalitico. Passiamo allora dall’esempio della descrizione precedente, quella dell’aula nella quale mi trovo, ad un altro, più propriamente ‘nostro’, ad una situazione banale ma essenziale che capita di fatto con tutte le persone che si rivolgono a noialtri. Prendo una frase a caso, di un genere che possiamo ascoltare tutti i giorni: una persona mi dice: “ieri mi sono molto arrabbiato con mia madre, che stava male e non voleva andare dal dottore”.
Dal punto di vista del metodo psicoanalitico, la prima cosa da fare è, appunto, un esame di realtà. Ebbene, da questo punto di vista noi non abbiamo alcun modo per verificare che esista una madre in vita del paziente, che essa sia stata male, che essa abbia un dottore, che il paziente abbia provato molta rabbia. Intendo dire che, dal punto di vista della realtà, solo un atto di fiducia irrealistico da parte nostra ci fa supporre che tutti questi elementi del pensiero del paziente abbiano un corrispettivo nella realtà esterna. E tuttavia siamo spessissimo per così dire attratti dalla possibilità di dare un giudizio sulla realtà esterna.
Ma dal punto di vista scientifico non è molto corretto ‘fidarsi’. Quel che invece l’esame di realtà corretto ci dice è che in questo momento è accaduto qualcosa nella testa del paziente per cui lui ha espresso una sequenza di parole che noi abbiamo udito e che suonava “ieri mi sono molto arrabbiato con mia madre, che stava male e non voleva andare dal dottore”. Questo è un giudizio di realtà fondato e certo. Tutto il resto sarebbe una illazione ingiustificata.
Bene, il metodo psicoanalitico è basato su questo giudizio di realtà e utilizza una serie di misure tecniche per consentire di mantenere questo giudizio e per utilizzarlo ai fini degli interrogativi che in tal modo nascono. Non è stato facile elaborarlo e non è facile metterlo in pratica. Vediamo.
Negli “Studi sull’isteria” – un testo della fine dell’Ottocento che va tuttavia sempre letto perché illustra adeguatamente le tappe che tutti noi dobbiamo compiere e attraversare se vogliamo giungere alla sperimentazione del metodo psicoanalitico – la celebre paziente di Breuer, Anna O., inventa l’espressione “talking cure”, cura parlata. Ebbene, le pagine attorno a questa frase sono assolutamente importanti per capire perché Anna O. ha dato una spinta fondamentale alla elaborazione del metodo. Vediamo un po’: quando parla Anna? In che condizioni? Ebbene Anna parla sotto ipnosi. Cosa non dappoco non tanto per l’effetto suggestivo al quale possiamo pensare quanto perché val la pena di notare che lo stato ipnotico è uno stato di relativo isolamento dalla realtà materiale esterna. Dunque Anna parla e chiede contemporaneamente che non ci si chieda se le cose che dice siano realistiche o meno – possono essere anche, annota Breuer, “storie molto graziose, sul tipo dell’ Album senza figure di Andersen ” (Breuer, p.196) – ma chiede invece che si noti l’effetto che le fa il pensare questi pensieri che, per usare un’altra sua espressione, quando vengono espressi verbalmente “puliscono il camino”.
Sempre negli “Studi”, poi, nel caso della signora Emmy von R., Freud segnala come la paziente esclami con voce angosciata “Stia zitto! Non parli! Non mi tocchi!” (p.214) e annota – badate- “Essa verosimilmente si trova sotto l’impressione di un’allucinazione terrificante ricorrente e si difende con questa formula contro l’intromettersi di materiale estraneo.” (ibid.). Anche qui l’importante – segnalato dalla signora Emmy – è che si ascoltino i suoi pensieri e che non si aggiunga materiale estraneo. Siamo nel 1893-4 e Freud è ancora lontano dalla elaborazione del metodo psicoanalitico e si può notare come in un certo senso “sputi” giudizi indebiti, (cosa che appunto tutti siamo sempre tentati di fare) quando ad esempio dice che “verosimilmente” la paziente si trova sotto l’impressione di un’allucinazione terrificante. Un’affermazione del tutto ingiustificata, tanto più che egli ha appena annotato – nelle righe precedenti – che ciò che dice la paziente è del tutto coerente e dimostra chiaramente cultura e intelligenza non comuni. Solo che Emmy tronca all’improvviso il discorso per dire, con espressione di orrore e di ripugnanza, “stia zitto! Non parli! Non mi tocchi!”. Insomma Emmy vuole che si ascolti. Ma che si ascoltino i suoi pensieri, non i pensieri indotti come risposta a pensieri altrui – ad esempio quelli di Freud- o comunque come risposta a stimoli altrui “non mi tocchi!”.
Porto questi esempi perché sono molto chiari e perché ci fanno vedere direttamente non solo la difficoltà di creare situazioni di relativo isolamento che consentano alle persone che ci si rivolgono di dire e osservare i loro pensieri in quanto tali, ma anche e soprattutto la difficoltà tipicamente umana – quindi di Freud e Breuer ma anche di ciascuno di noi – di conservare un giudizio di realtà preciso.
Se insisto su questo punto fondamentale, è perché esso ha anche la caratteristica di essere innaturale. La ‘innaturalità’ è una categoria bislacca, se volete, ma è anche una segnalazione del fatto che abitualmente adoperiamo, nella vita quotidiana, percezioni e giudizi inappropriati e irrealistici che tuttavia entro determinati limiti funzionano per affrontare la realtà. Ogni mattina vedo il sole sorgere appunto a oriente e la sera lo vedo tramontare ad occidente. So bene che non è così e che non è il sole a sorgere ma la terra a girare, tuttavia è naturale, spontaneo, percepibile il fatto di notare che il sole sorge. Nella vita quotidiana la cosa funziona bene, senza alcun danno, con tanti saluti a Galileo Galilei. Ma questo giudizio errato sarebbe disastroso se lo utilizzassi per poter lanciare un satellite. Insomma l’errore può essere utilizzabile ma, appunto, entro certi limiti. Altrettanto, se incontro un amico per strada e questi mi dice di aver appena lasciato un altro amico, non c’è motivo per non “credergli”, anche se non ho alcun modo per verificare che la sua affermazione sia il racconto di un evento appena accaduto. Tuttavia, quando si tratta di prendere sul serio e cercare di comprendere l’attività di pensiero, è fondamentale riuscire a mettere da parte tutto ciò che facilita o costringe a giudizi errati, come avevano appunto insegnato quelle signore le cui storie vengono riportate negli Studi sull’isteria. Ma questo procedimento va contro le tendenze abituali, spontanee, appunto per così dire naturali di ogni essere umano. Intendo dire: non solo dei cosiddetti pazienti ma anche degli psicoanalisti.
A questo proposito, poi, già Freud annotò due altri fatti che stanno alla base del metodo psicoanalitico e che accentuano la sua caratteristica di “innaturalità”. Il primo è un fatto storico-antropologico relativo alla credenza animistica (vedete che siamo sempre nell’ambito della critica del giudizio erroneo): l’umanità, per lunghissimo tempo, ha attribuito l’attività psichica un po’ a tutto: alle pietre, alle piante, agli animali, ai propri simili. Ma a poco a poco ha ristretto questa attribuzione limitandola agli esseri umani. Freud, tranquillamente, conclude questa osservazione con la seguente frase: “Anche dove l’originaria tendenza alla identificazione ha superato il nostro esame critico, nel caso degli ‘altri’ a noi più prossimi, gli uomini, la convinzione che essi abbiano una coscienza si fonda su un’illazione, e non può possedere la certezza immediata della nostra coscienza personale ” (L’inconscio, OSF VIII, 52-53). Una frase mica da poco. Non contento, Freud aggiunge, aggravando ancora la situazione, già piuttosto difficile, “ora, la psicoanalisi non chiede altro che di applicare questo tipo di inferenza anche alla propria persona – procedimento per cui non esiste, per la verità, una inclinazione naturale” (ibid., corsivo mio). Insomma Freud già un secolo fa (siamo nel 1915) ci faceva notare appunto la innaturalità del procedimento, per di più non solo per quanto riguarda gli altri ma anche per quanto riguarda noi stessi. Insomma dobbiamo ammettere che, sì, abbiamo la certezza immediata di un qualcosa che chiamiamo “la nostra attività psichica cosciente” ma poi non sappiamo null’altro. Anche banalmente: per parlare abbiamo bisogno di usare delle parole ma nessuno di noi può immediatamente dire da dove saltino fuori queste parole oppure come si formino: la coscienza insomma usa degli strumenti di cui non sa nulla. E se non li usasse sarebbe nei guai.
Un paio d’anni prima (1912) Freud aveva fatto un’altra osservazione (vi avevo detto che c’erano altri due fatti che stanno alla base del metodo psicoanalitico). Nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico aveva sviluppato il paragone con il telefono: [il medico]”deve disporsi rispetto all’analizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente”, annotando che “il ricevitore ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano state prodotte da onde sonore” (OSF, VI, 536). Siamo nel 1912 e i telefoni all’epoca erano quel che erano. Ma l’analogia basata su questa osservazione merita di essere a sua volta osservata, proprio perché essa segna una ulteriore precisazione nel disegno del metodo psicoanalitico. Che cosa segnala Freud? Segnala che stando alla realtà – vedete che torno sempre allo stesso punto – noi riceviamo nel nostro orecchio degli stimoli fisici consistenti in onde e che noi compiamo tutto un lavorio per ordinare e comporre gli stimoli sonori, costruendoci così un qualcosa che poi affermiamo essere quel che ha detto la persona che ha prodotto gli stimoli. Ora, nella vita quotidiana questo procedimento funziona. Ma se ci mettiamo da un punto di vista scientifico le cose cambiano, perché dobbiamo ammettere che c’è tutto un nostro lavoro ricostruttivo sul quale non possiamo passare sopra senza chiederci cosa comporta. Notate anche che in tal modo viene messa in discussione – come nella annotazione che vi avevo segnalato prima – l’attività psichica del cosiddetto ricevente.
Insomma cosa sto dicendovi? Che il metodo psicoanalitico si è costruito man mano per consentirci di osservare i fenomeni psichici propri di ciascun essere umano. E che si è costruito per progressiva restrizione allo scopo di garantirci l’uso corretto dell’esame di realtà. Dapprima le pazienti che ingiungevano a Freud e Breuer di stare zitti, restringendo dunque il campo al solo loro pensiero, poi la constatazione che l’attività psichica altrui non ha l’immediatezza della propria, sostenuta dalla consapevolezza che sì qualcuno produce degli stimoli sonori ma che poi siamo noi a assemblarli e ad attribuire loro un significato. E che noi stessi – contro le tendenze ‘naturali’ – dobbiamo constatare che esiste qualcosa dentro di noi che ci sfugge continuamente.
Quindi il primo punto che volevo sottolineare è questo: il rispetto verso la realtà o se volete l’uso corretto dell’esame di realtà, ci obbliga ad essere molto cauti relativamente al materiale psichico che vogliamo comprendere e non solo cauti ma anche costantemente critici, perché come abbiamo visto stiamo andando contro delle tendenze naturali, spontanee, evolutivamente utili. Il metodo psicoanalitico è dunque realistico, circoscrive l’ambito di osservabilità ma anche va contro una tendenza “naturale” o spontanea dell’essere umano ad avere a che fare con la realtà.
Il secondo punto è – ahinoi – una constatazione abbastanza evidente e anche abbastanza dolorosa: il pensiero cosciente non solo ha dei limiti ma addirittura spessissimo fallisce. Per quanto riguarda i limiti, ciascuno di noi può farne la prova ad esempio a proposito di quella facoltà cui teniamo giustamente moltissimo e che chiamiamo ‘ragione’: oltre un determinato punto, diverso per ciascuno di noi, non siamo più in grado non solo di sviluppare ma nemmeno di seguire un ragionamento. E per quanto riguarda i fallimenti, è evidente che nessuno si rivolgerebbe ad uno psicologo, ad uno psichiatra, ad uno psicoanalista se riuscisse, ragionando o pensandoci un po’ su, a risolvere i suoi grattacapi. Che si tratti di produzioni psichiche che si impongono alla coscienza, come possono essere le fobie o le allucinazioni o le ossessioni o, ancor peggio, che si tratti di attività che si rivelano solo a posteriori, come i classici ripetuti fallimenti nella vita affettiva o lavorativa, la constatazione obbligata è che il sistema conscio di pensiero non ce la fa, non funziona, va in tilt e insomma non consente di risolvere il problema.
L’altra scelta realistica che si impone – ma ci abbiamo messo secoli per pensarla, dunque non è una cosa semplice – è dunque quella di cercare di mettere da parte questo sistema conscio di pensiero che, in queste circostanze, serve veramente a poco o addirittura va in senso opposto a quel che si desidera. Per cercare di capire come si siano prodotte queste attività psichiche fallimentari.
La famosa regola delle libere associazioni serve a questo e sto cercando di sottolinearvi quanto sia realistica e, paradossalmente, ragionevole e adeguata ad una esigenza scientifica. Nella pratica chiediamo al paziente di collaborare mettendo da parte il suo pensiero razionale , la sua tendenza a creare dei discorsi, a ragionare – e invece di imparare a stare ad osservare i pensieri che man mano sorgono alla coscienza, per quanto illogici, sgradevoli o irrazionali o intempestivi o incongrui possano apparire. Insomma nella pratica chiediamo al paziente di “lasciarsi parlare”. Ma questa pratica è sostenuta da una serie di considerazioni e di osservazioni, che in parte vi ho illustrato. Alle attuali Anna O. e Emmy von R., in fondo, facciamo notare che non solo hanno ragione a chiederci di non interferire ma che esse stesse interferiscono con il loro proprio pensiero e dunque, appunto, debbono ‘imparare’ a lasciarsi parlare. Chiediamo insomma un atteggiamento realistico anche ai pazienti.
Quel che non vi ho detto, avrete notato, è che nel frattempo la psicoanalisi – a partire da Freud ma poi sviluppando e specificando il metodo – ha profondamente indagato l’altra attività psichica, quella inconscia, ha scoperto alcune delle regole di funzionamento di questa attività, si è chiesta quindi come dev’essere fatto l’essere umano per poter avere questa molteplicità e contemporaneità di sistemi di pensiero.
Ho centrato finora solo il punto di quant’è realistico il metodo psicoanalitico. Aggiungo solo un altro elemento fondamentale e questo sì davvero incredibile. Nello stesso scritto che vi avevo citato sopra, quello del paragone con il telefono, Freud apre in poche pagine la strada ad alcune linee di ricerca che sono state molto seguite in tutto quest’ultimo secolo. Egli infatti, sulla base dei punti che vi avevo elencato sopra e in particolare quello relativo al fatto che noi ricostruiamo ciò che udiamo dal paziente, segnala come sia necessario, per poter ricostruire adeguatamente, stare al medesimo gioco che abbiamo indicato al paziente: lui deve cercare di mettere da parte il più possibile il sistema conscio? E anche noi dobbiamo fare altrettanto. Il nostro sistema conscio, infatti, è fatto della stessa pasta di quello del paziente e, dunque, non serve granché. Se si sta a ragionare su quel che dice il paziente si rischia, per fare un paragone, di tradurre automaticamente in italiano quel che il paziente ci sta dicendo in spagnolo o in portoghese o addirittura in cinese, lingue che non conosciamo. E di prendere fischi per fiaschi. Invece bisogna cercare di usare noi stessi il medesimo modo: stare attenti sì ma a quel che ci viene in mente lì, indipendentemente dal fatto che possa parere inadeguato, incongruo, assurdo. Posso accorgermi di sentirmi eccitato o depresso mentre mi viene raccontato un episodio apparentemente privo di connotati particolari, può venirmi in mente una cosa che apparentemente non c’entra affatto con ciò che sta dicendo il paziente. Eppure è realistico osservare che, mentre quel signore stava inviandomi i suoi stimoli sonori, a me sono venute in mente quelle idee o quei sentimenti. L’importante è che, come il paziente deve lasciarsi pensare, anch’io mi lasci pensare – e che entrambi stiamo ad osservare quel che passa, quel che succede.
Poi, naturalmente, ma solo poi e magari molto “poi”, viene il momento di chiedersi perché e come sia accaduta una cosa del genere, ma questo è un altro paio di maniche.
Faccio un esempio che mi sembra dimostrativo.
Una signora in analisi da un paio d’anni mi dice che la notte precedente ha fatto un sogno nel quale si trovava nella sua camera da letto. Stava a letto ma svegliandosi non riusciva a vedere l’ora sull’orologio perché al suo lato c’era un comò, troppo alto perché lei, stando stesa, potesse vedere la sveglia. Si diffonde poi a parlare della zia che le ha lasciato in eredità questo comò e poi del legame che c’era tra questa zia e suo padre, arrivando fino a ricordi d’infanzia. Nel frattempo io ho la sensazione che manchi qualcosa o qualcuno e mi vengono in mente svariate persone che non vedo da parecchio tempo. E penso che la signora mi stia facendo fare una strada nel tempo per allontanarmi dall’attualità. Le faccio dunque osservare che ho l’impressione che mi stia portando lontano nel tempo forse per nascondere involontariamente qualcosa di attuale che pure nel sogno viene raffigurato, ad esempio la mancanza, l’assenza di Dino.
È stata la sensazione di mancanza che mi ha fatto riflettere. Perché manca qualcosa? In effetti mancava il como-dino, al cui posto stava un comò grande che , per via della sua altezza, impediva la vista della sveglia. L’attività psichica inconscia aveva eliminato ‘dino’ – personaggio di cui peraltro non avevo mai sentito parlare. Oppure era stata raffigurata l’assenza di Dino. Il che era in effetti uno degli scopi del sogno. Il desiderio cioè di non parlarmi da “sveglia” di una persona particolare, appunto Dino.
Se avessi ascoltato il contenuto dei pensieri di questa signora, l’avrei seguita lungo la sua storia e magari avrei potuto dirle qualcosa relativamente al rapporto esistente un tempo tra suo padre e sua zia, oppure qualcosa relativo alla sua gelosia infantile o perfino qualcosa relativo al suo transfert nei miei riguardi. Ma non avrei seguito il metodo, non mi sarei lasciato pensare, non avrei osservato questa mia attività, non mi sarei conseguentemente chiesto cosa questa attività aveva a che fare con il sogno raccontato.
Viceversa l’interessante qui ai nostri scopi di oggi è l’elemento realistico: era reale il fatto che stavo provando una sensazione di mancanza o di assenza e dunque era realistico che mi chiedessi perché provavo una sensazione di mancanza mentre la signora riempiva di persone e di collegamenti il suo discorso.
È vero che, dal punto di vista della tecnica del discorso abituale da svegli, insomma dal punto di vista del funzionamento del sistema conscio, dire alla signora che mi sta nascondendo Dino è un intervento da pazzi. Ma dal punto di vista che ho cercato fin qui di illustrarvi l’intervento rispetta la realtà. Insomma val la pena di ripetersi e di dire che non è vero che ci sia della follia in questo nostro metodo ma, all’inverso, è vero che c’è del metodo in questa follia, come già aveva affermato Shakespeare nell’Amleto (atto2, scena2).
Perché ho centrato questo mio intervento sull’esame di realtà e sul realismo conseguente del metodo psicoanalitico? Perché una tendenza oggi in atto – e spesso, notate, perfino assecondata da alcuni psicoanalisti – è quella che prescrive l’accoglimento, la gentilezza, la comprensione nei riguardi dei pazienti, visti assai spesso come vittime, come poveracci che hanno subito traumi inenarrabili dai quali forse non potranno mai più risollevarsi. Sentimenti nobili, beninteso. Ma, se vogliamo dare spazio a questi sentimenti, consiglio caldamente di non voler fare lo psicoanalista. Perché per noi analisti è fondamentale poter sottoporre a critica tutta la nostra attività di pensiero, una volta che la si lascia andare liberamente. E se abbiamo atteggiamenti preconcetti che desideriamo ascoltare fino a consentire loro di guidare i nostri comportamenti, vuol dire che non siamo disponibili a lasciarci pensare liberamente. E, anche, che non siamo disponibili a fare un lavoro scientifico.
Altre due tendenze tra virgolette “psicoterapeutiche” stanno andando attualmente contro un atteggiamento scientifico: una è quella che considera gli altri come animaletti da addestrare mostrando loro dove “sbagliano” e incentivando l’esercizio di atteggiamenti comportamentali “corretti”. L’altra è quella che cerca di spiegare le cause della sofferenza del paziente ricorrendo a costruzioni neurologiche. Se il circuito talamo-corticale funziona male, sarà possibile modificarne il funzionamento? E, se posso dimostrare mediante tecniche raffinatissime che davvero c’è qualcosa di strano nei circuiti cerebrali di quel signore, non ho forse spiegato la genesi dei suoi sintomi?
Entrambe queste tendenze hanno in comune la negazione dell’inconscio, ossia di una attività psichica costante della quale noi immediatamente non sappiamo alcunché, che ci tocca scoprire pezzetto per pezzetto, che si declina individualmente, che non ammette generalizzazioni o applicazioni di schemi. La teoria o gli schemi spesso ci consolano da quella che è una ferita narcisistica importante consistente nello scoprire che non siamo padroni a casa nostra. Ma usare di questi modi ci espone al rischio di ritrovarci di nuovo di fronte ad un fallimento, che è poi lo stesso fallimento del sistema conscio per cui i pazienti hanno bisogno di un altro..
Perciò, per quanto frustrante e innaturale e difficile, il metodo psicoanalitico è, a mio avviso, quanto di più onesto e realistico l’umanità è riuscita a fare per cercare di comprendersi.
Aggiungerò che è spesso anche quanto di più sorprendente e perfino talora di divertente si possa immaginare. E, alla fine, è un metodo che si può qualificare come profondamente umano, perché tiene conto di tutte le componenti che ci fanno essere quel che siamo.
Certo, l’esercizio prolungato di questo metodo ci mette anche in una particolare disposizione d’animo e ci fa intravvedere delle caratteristiche della vita quotidiana abbastanza singolari. Alcune ne avevo indicate più sopra. Ne indico solo un’altra che fa parte di quelle che io, nel mio lessico privato, chiamo le patologie professionali dello psicoanalista, quelle che dovrebbero fare intervenire l’INAIL. Si tratta della tendenza che a volte compare a voler interpretare tutto, anche nella realtà quotidiana, al di fuori di qualsiasi assetto tecnico. Interpretare l’atteggiamento di un collega, il sogno di un amico, la frase buttata là da un interlocutore qualsiasi. Se una mattina d’inverno il mio edicolante mi sporge il pacchetto di giornali lamentando che per lui con tutto quel freddo sarà una giornata dura, sarebbe un grave errore – e una scorrettezza umana – che io azzardassi un giudizio sulle caratteristiche affettive di sua madre o sulla tirchieria di suo padre che lesinava sul riscaldamento domestico. Al più posso anche pensare che egli mi stia chiedendo una semplice solidarietà umana, posso dunque offrirgli di venire con me a prendere un caffè al bar accanto ma basta. Sui limiti necessari in questo scambio umano, penso, potremmo essere tutti d’accordo. Ma saremmo altrettanto d’accordo nel caso degli altri due esempi richiamati, quello dell’atteggiamento del collega o quello del racconto del sogno da parte di un amico? A quanto posso constatare, accade di frequente che un sogno venga magari bonariamente interpretato o che – meno bonariamente – l’atteggiamento di un collega venga apparentemente spiegato con motivazioni inconsce. Si tratta a mio avviso di gravi errori, non tanto per la persona che riceve l’interpretazione selvaggia quanto per l’incauto che la formula, il quale altera il proprio esame di realtà. Nella realtà, per tornare a Galileo, se io percepisco che il sole sorge da una parte e tramonta dall’altra, la percezione in sé stessa è esatta, anche se in un altro contesto dovrò o potrò chiedermi come mai non collimi con un altro tipo di spiegazione. Sarebbe incongruo, comunque, che al mattino, appena alzato, sostenessi che il globo terrestre ha ruotato in un certo modo e in un certo tempo e che dunque ora appare il sole inclinato di tot gradi sull’orizzonte. Penso che se dicessi così mia moglie mi guarderebbe strano. E comunque non lo faccio. Ma che dire dell’amico che mi chiede ‘cosa vuol dire’ il sogno che ha fatto questa notte? O che dire della tendenza a interpretare appunto il comportamento o l’atteggiamento di un collega? Nella realtà, noi non sappiamo cosa voglia dire quel sogno e ancor meno sappiamo perché, in base a quali motivazioni inconsce, il tal collega o amico si è comportato in quel modo. Il che non vuol dire che non possiamo esprimere un giudizio, ma che questo giudizio non può far altro che attenersi al contesto attuale, che impedisce un approfondimento sull’attività psichica di quella persona. Posso dire che una persona è stata maleducata con me, ma non posso, se non abdicando all’esame di realtà, sostenere che ha spostato su di me la carica di aggressività che ha in serbo contro sua madre.
Il fatto è che, in un certo senso, noi tutti siamo ancora espressione della organizzazione che la nostra specie ha conseguito in epoche remote. Quella che oggi ci sembra una sorta di patologia magari in altre epoche funzionava adeguatamente. E in quelle epoche la nostra specie era quanto di “meglio” ci fosse , tant’è che ha vinto tutte le proprie battaglie. Ma oggi? Di fronte alla difficoltà attuale nel padroneggiamento individuale dell’aggressività, e viceversa alla nuova facilità attuale di bersi gli stimoli più incredibili e anche meno verificabili (per esempio ovviamente quelli derivanti dall’uso della rete), di fronte alla fame di ideali e alla mancanza di offerte praticabili di questi ideali, penso che ci dobbiamo chiedere – è un compito attuale, penso – come possiamo pensare, fantasticare, immaginarci quel che è possibile fare perché l’essere umano possa progressivamente diventare più consapevole dei propri limiti ma anche e proprio perciò della propria enorme creatività. Insomma come sia possibile incentivare l’uso corretto dell’esame di realtà. Ovviamente io penso che questo non possa accadere che attraverso un buon uso dell’inconscio ma so che questo è un mio pio desiderio e non mi illudo più di tanto che sia realizzabile.
Potrei fermarmi qui ma permettetemi un’ultima considerazione. L’esame di realtà è considerato da sempre – da Freud in poi, almeno – una delle grandi istituzioni dell’Io1. Eppure, come abbiamo visto, l’elaborazione del metodo psicoanalitico ci ha insegnato che l’applicazione stretta dell’esame di realtà è un’illusione nella vita quotidiana e che possiamo tentare di farla solo quando realizziamo delle condizioni assai particolari. Ci dobbiamo allora interrogare sul perché o sul percome l’Io, nonostante abbia la necessità di farne uso, cerchi continuamente di metterlo da parte. Questo interrogativo ci riguarda in quanto psicoanalisti, nel senso che nella pratica psicoanalitica ci imbattiamo tutti i giorni in questa situazione ma interroga anche tutti noi nella vita quotidiana ed è un merito del metodo quello di averci consentito di riflettere anche su questo aspetto della nostra attività psichica. Per una parte di noi – dio solo sa quanto importante – la realtà esterna dunque non esiste se non come insieme di stimoli o fastidiosi o utilizzabili per la ricerca del piacere. Né esiste la cosiddetta realtà esterna né quella cosiddetta interna. Quella difficile e abbastanza rara caratteristica che chiamiamo ‘onestà intellettuale’2 implica il riconoscimento della esistenza di questa condizione espressione di questa modalità di essere di ciascuno di noi. Una modalità d’essere che chiamiamo ‘narcisismo primario’. La stessa onestà intellettuale non è tuttavia a sua volta un merito o un demerito, ma appunto anch’essa una condizione, determinata da equilibri risultanti spesso dalla composizione di difficili e apparentemente incompatibili movimenti interiori. Ci possiamo chiedere se il metodo psicoanalitico implichi l’uso esteso di questa condizione, considerata come una base di appoggio per l’osservazione del proprio flusso continuo di attività psichica. E dobbiamo comunque notare, a scanso di possibili autoincensazioni, che si tratta di una condizione non solo antieconomica o innaturale ma anche per lo più svantaggiosa sul piano sociale e della realtà quotidiana, perlomeno in contesti che tendono a premiare – come il nostro contesto italiano – piuttosto quella che viene chiamata ‘furbizia’, che è la qualità madre della diffusa ‘corruzione’. La quale corruzione è abitualmente considerata come una categoria basata su un giudizio di confronto tra la condotta concreta e le regole stabilite ma potrebbe anche essere vista come un’elaborazione etno-antropologica del rapporto tra legge e comportamento individuale e sociale, sintonica con la possibilità prescritta (a livello culturale) di mettere da parte il Padre senza ucciderlo ma, semplicemente, lasciandolo appunto da parte, tenendolo buono, come si usa dire. Certo, mi si può obiettare, però ad un certo momento la realtà (interiore o esterna) con il suo peso obbliga a prenderla in considerazione per quel che è. Credo si tratti di una osservazione ottimistica e che l’apparato psichico abbia numerosissime possibilità di sfuggire a questo presunto obbligo, magari possibilità fallimentari. Anche a questo l’uso del metodo psicoanalitico ci ha abituati.
Dunque, per concludere, potremmo dire anche oggi – come affermava Freud nel 1915 – che l’esame di realtà è una fondamentale istituzione dell’Io? Sì, possiamo dirlo, ma con la consapevolezza che si tratta di una istituzione a basso funzionamento e, per giunta, non sempre vantaggiosa per l’individuo. Forse non sarà nemmeno vantaggioso per me e per l’apprezzamento vostro nei miei confronti sottolineare questo nostro modo di essere fatti, visto che si tratta di una conclusione poco consolante. Però il poterla dire – non solo pensarla – ha un effetto positivo per la nostra attività psichica e perciò ve la ricordo. Grazie.
1 Freud era certamente alquanto ottimista quando affermava che “l’Io deve osservare il mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante l’esercizio dell’ “esame di realtà” ciò che in questa immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento” (OSF, 11 187, lez. 31 della Introduzione alla psicoanalisi, 1932). Qualche anno prima, aveva affermato che “Porremo l’esame di realtà fra le grandi istituzioni dell’Io, accanto alla censura fra i sistemi psichici di cui siamo venuti a conoscenza; e ci aspettiamo che l’analisi delle affezioni narcisistiche ci aiuti a scoprire altra istituzioni del genere” (OSF, 8, 100, Supplemento alla teoria del sogno) ed evidentemente gli riusciva difficile tollerare che la grande istituzione dell’Io fosse così fragile e precaria. Si veda anche la seguente affermazione: Sin dai primi inizi, quando la vita ci stringe nella sua severa disciplina, si risveglia in noi una resistenza contro l’inesorabilità e la monotonia delle leggi del pensiero e contro le esigenze dell’esame di realtà. (OSF,11, 147)
2 Cfr.: A.A.Semi Illusione e verità: l’onestà intellettuale tra realtà storica e mito, Cap. III di L’illusione:una certezza, a c. di Anteo Saraval, Cortina ed., Milano, 2003.