Cosa può la psicoanalisi di fronte al malessere psichico nelle civiltà ipermoderne?
relazione presentata al Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI “Malessere sociale e malessere individuale: alleati o nemici?” con R.Kaës e A.Ferruta
13 Aprile 2013
Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini – Via de’ Malcontenti, 6 – Firenze
Per gentile concessione dell’autore, per consultazione e non per riproduzione
Traduzione a cura di S.Bitossi, S.Calamandrei e A.Usuelli
Cominciamo con due interrogativi che definiscono la pertinenza e la portata di quello che vorrei esporre in questa conferenza.
Il primo mi accompagna dall’inizio delle mie ricerche. Lo formulo semplicemente così: come facciamo a conoscere ciò che conosciamo, e ciò che conosciamo si applica a tutti i campi della conoscenza? O più chiaramente: che legittimità possiede il discorso psicoanalitico derivato dalla cura per parlare del malessere nella cultura ipermoderna, o secondo la formulazione di Freud, del “disagio nella civiltà”.
A questa prima domanda d’ordine epistemologico se ne aggiunge un’altra, d’ordine metodologico e clinico. Dopo Freud, la pratica e la teoria della psicoanalisi sono cambiate, e con esse la concezione della psiche che organizzava l’interpretazione del disagio nella civiltà. Alcuni nuovi dispositivi di cura nel lavoro psicoanalitico sono stati messi a punto e hanno dato prova della loro pertinenza. Essi hanno aperto alla conoscenza clinica del processo e della formazione della vita psichica inaccessibili “altrimenti”. Prendendo spunto da ciò che abbiamo scoperto e pensato, siamo parzialmente usciti dalla speculazione per metterci alla prova della clinica delle “configurazioni dei legami”. Di questo, quindi, vado a parlare, poiché è sulla base di ciò che ho imparato a conoscere, che ho interrogato “il malessere contemporaneo”, a più di 80 anni dal “Disagio nella civiltà”. La linea di pensiero che mi ha guidato è che ognuno dei nostri dispositivi lascia una parte di “resti da conoscere”. Sono questi resti che stimolano a ricorrere creativamente alla speculazione, poi all’invenzione di nuovi dispositivi, di nuovi metodi per aprire un accesso a questi nuovi spazi.
E’ tra questi due problemi che inserisco le mie proposte introduttive. Esse costituiscono la risposta che potrei portare come sottotitolo di questa conferenza: “Cosa può la psicoanalisi”?
E innanzitutto che cosa non può la psicoanalisi?
Cominciamo da ciò che essa non può e precisiamo ciò che vuol dire “ciò che non può”. La domanda rimanda a quella dei limiti del suo campo di pratica e dunque al metodo che le si associa. Rinvia anche al tema delle sue estensioni e alle conseguenze di queste estensioni. Include infine quella delle sue differenze e delle sue frontiere con le altre discipline, o più esattamente con altri campi d’oggetto epistemologico.
Sappiamo che questi limiti sono estensibili e che senza l’estensione del loro campo d’applicazione, né la psicoanalisi neonatale, né quella infantile, degli adolescenti, degli psicotici e degli stati limite avrebbero potuto essere inventate. Perché queste estensioni si potessero produrre è stato necessario modificare il dispositivo della cura-tipo concepita con il trattamento dei nevrotici adulti. Il setting interno dell’analista e i modelli di intellegibilità dello spazio psichico del singolo soggetto hanno dovuto loro stessi trasformarsi. È stato necessario revisionare e riformulare i modelli teorici, che sono allora apparsi come provvisori e relativi alle condizioni di possibilità della pratica psicoanalitica. Queste estensioni si sono inscritte all’interno del primo atto fondatore della psicoanalisi, quello che Freud ha inizialmente aperto alla conoscenza dello spazio della realtà inconscia intrapsichica.
Il secondo atto dell’invenzione della psicoanalisi è apparso con la messa in opera di dispositivi che hanno reso possibile un lavoro psicoanalitico con più soggetti riuniti con uno o più psicoanalisti seguendo la regola fondamentale. Con questo secondo atto, a partire dai dispositivi psicoanalitici applicati ai gruppi, alle famiglie e alle coppie, sono apparsi ulteriori spazi di realtà psichica. Mentre la cura individuale fa lavorare lo spazio psichico di un solo soggetto nel campo transfert-controtransfert, il gruppo mette al lavoro tre spazi psichici: lo spazio intrapsichico del soggetto nel gruppo, lo spazio dei legami interpsichici e lo spazio transpsichico del gruppo stesso. Questi tre spazi non sono né incastrati né sovrapposti, ma in articolazione, in correlazione e in interferenza gli uni con gli altri.
Questa fu la mia prima scoperta quando cominciai il mio lavoro psicoanalitico con i gruppi. Ciascuno di questi tre spazi è strutturato attraverso una legge di composizione, ognuno comporta dei processi e delle formazioni psichiche specifiche che non esistono che in queste configurazioni e che sono di conseguenza inaccessibili al di fuori dei dispositivi psicoanalitici che li rendono manifesti. È nel gioco che si svolge fra questi tre spazi che si formano e si trasformano i processi e le formazioni proprie a ciascuno di loro.
Quando consideriamo ciascuno di questi spazi isolatamente, constatiamo che definiscono un’area di conoscenza dell’inconscio, ma anche ciò che ho chiamato “un resto da conoscere”. È per questo che inventiamo delle estensioni che riducono questi resti e che aprono a nuove possibilità di trattamento. Ma questo resto si sposta e persiste. Lo stesso succede quando noi ci interessiamo a ciò che Freud ha chiamato le sofferenze psichiche, che hanno un’origine sociale e culturale, e aggiungiamo noi, politica ed economica.
La psicoanalisi non ha ancora inventato un accesso soddisfacente a queste fonti attraverso un metodo appropriato. Il suo approccio si costruisce in tre modi: uno, obliquo, è quello della speculazione. Questa ha per lungo tempo caratterizzato la psicoanalisi detta applicata. Ma questa strada, nonostante sia stata feconda, corre il rischio di andare alla deriva verso ciò che il sociologo francese R. Castel ha giustamente chiamato lo “psicoanalismo”, cioè una visione del mondo nel senso che Freud dava a questa nozione, cioè una ideologia.
L’altra strada è quella che apre al confronto con le altre scienze umane, secondo il principio complementarista enunciato da G. Devereux ed espresso da F. Braudel: “tutte le discipline delle scienze umane sono a loro volta ausiliarie l’una dell’altra”. Se la psicoanalisi continua ad accettare questo dialogo, essa non resta più rinchiusa nella solitudine autosufficiente nella quale essa avrebbe la tendenza a mantenersi.
Esiste poi una terza strada, che come le due precedenti, è marcata dall’incompletezza: bisogna non soltanto ammettere che ogni dispositivo della psicoanalisi possiede una competenza specifica, ma anche che l’insieme dei nostri dispositivi conosciuti e sperimentati non è sufficiente a conoscere tutto il campo della realtà.
Oggi, la psicoanalisi non può limitarsi alla sola realtà psichica del singolo soggetto: non può più neppure costituirsi come una visione del mondo di cui avrebbe la chiave, una sorta di scienza delle scienze che si costituirebbe a partire unicamente dalla esperienza dello spazio della realtà psichica del singolo soggetto.
Confrontata al malessere della e nella nostra cultura eteroclita e al trattamento della sofferenza psichica che ne deriva, la psicoanalisi deve mettere in opera tutte le risorse della conoscenza dell’inconscio di cui dispone, all’interno di tutti i dispositivi dove l’inconscio si manifesta e produce i suoi effetti.
Ciò che può oggi la psicoanalisi, è trattare certe forme di malessere contemporaneo e renderne conto a condizione di esplorare i rapporti che intercorrono fra lo spazio psichico del soggetto, lo spazio dei legami intersoggettivi e lo spazio psichico proprio delle configurazioni psichiche dei gruppi, delle famiglie e delle istituzioni.
Ho consacrato una gran parte delle mie ricerche a questa esplorazione. Devo riconoscere che questa esplorazione comporta delle difficili domande. Essa obbliga a definire di cosa si occupa la psicanalisi oggi, a interrogare la sua competenza e la sua legittimità nel dire qualche cosa di specifico sul malessere contemporaneo. Scopriamo che la crisi del mondo moderno mette anche in crisi la psicoanalisi. Le stesse difficoltà incontrano le scienze umane nella ricerca di modelli adeguati per pensare la mutazione e le metamorfosi dei nostri tempi, dei nostri spazi, dei nostri legami, della nostra cultura e delle nostre mentalità. Sappiamo di sapere poco su queste mutazioni, ma dobbiamo arrischiare delle analisi nuove, fabbricare degli strumenti mentali, proporre dei modelli di intelligibilità per pensare di nuovo e provvisoriamente questo rapporto con lo sconosciuto che noi abbiamo scelto come il nostro modo d’essere al mondo.
Contesto del “Disagio nella civiltà” e nuovi approcci
Questi nuovi orientamenti della psicoanalisi corrispondono ad un momento ben preciso nella storia dell’Occidente. Il lavoro psicoanalitico con i gruppi è cominciato tra le due guerre e si è sviluppato negli anni 1950-60. Il suo terreno di coltura sono state le grandi trasformazioni sociali, politiche, economiche e culturali che hanno preoccupato Freud e che hanno ispirato il suo saggio su il Disagio nella civiltà. Ma mentre Freud non disponeva per la sua analisi che di osservazione della cura e di informazioni che prendeva dalle sue letture, la sua intelligenza gli ha permesso di prolungare attraverso la via della speculazione ciò che l’esperienza della psicoanalisi non poteva insegnargli direttamente.
Il lavoro di Freud ha aperto alcune vie per pensare con la psicoanalisi il rapporto tra psiche e mondo contemporaneo. In almeno tre occasioni egli ha sottolineato tale necessità: nel 1908 nel suo articolo sulla genesi de “La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno”; nel 1918 al congresso di Budapest e nel 1929 con Il Disagio nella civiltà. Bisognerebbe interrogarsi sulla comprensione di Freud nel momento in cui analizzava questo malessere: in quale contesto e da quale punto di vista lo considerava, con quali strumenti concettuali e con quali modelli lo pensava. Non ho il tempo di affrontare qui questi problemi; li ho esposti nel mio libro sul “Le Malêtre”.
Ma non possiamo fermarci a quello che Freud ha scritto su queste problematiche. È ragionevole pensare che dopo il 1929, la civiltà umana si sia considerevolmente trasformata, e altre organizzazioni della mente umana sono state esplorate e che di conseguenza altri modelli di funzionamento psichico siano ormai necessari.
Quando Freud scriveva Il Disagio, la seconda guerra mondiale era ancora allo stato d’embrione nella sua incubatrice infernale, né la Shoah, né Hiroshima e Nagasaki, né le stragi ed i genocidi dell’ultimo quarto del secolo scorso erano stati perpetrati e neppure i totalitarismi sovietico, maoista e cambogiano si erano sinistramente installati, né la globalizzazione aveva deregolato le economie, il mondo del lavoro ed i flussi migratori. Il terrorismo planetario non aveva ancora fomentato l’11 settembre 2001 né l’11 marzo 2003 e la globalizzazione dei suoi atti assassini. Ma anche Internet non esisteva e le miriadi di connessioni immediate e di informazioni di ogni tipo e nemmeno la preoccupazione ecologica per la sopravvivenza del pianeta, e dunque con questa anche quella, pressante, sul futuro dell’umanità. Siamo ormai dentro questo malessere.
Se le condizioni della globalizzazione sono differenti nei diversi spazi geopolitici del pianeta, possiamo fare l’ipotesi che i loro effetti psichici siano legati ad alcune costanti antropologiche le cui espressioni non sono identiche in Cina, in India, in America Latina, in Africa, in Europa, in Medio Oriente e in Arabia. Soltanto un’antropologia psicoanalitica comparata potrebbe illuminarci su processi e formazioni psichiche analoghi ma non identici.
1.Il malessere nella cultura del nostro tempo
Ho formulato alcune ipotesi per qualificare il malessere nella cultura del nostro tempo. Le riassumo:
I notevoli cambiamenti sopravvenuti in due decenni appena nei legami intergenerazionali, nelle relazioni tra i sessi, e soprattutto nello status della donna, le metamorfosi delle strutture familiari, le mutazioni inedite nei rapporti di lavoro e nella sua organizzazione, le metamorfosi nei legami sociali, nelle strutture dell’autorità e del potere, lo scontro violento con questa “terza differenza” che provoca la mescolanza delle culture, tutte queste dimensioni mettono in questione i processi di strutturazione degli spazi psichici e le fondamenta del sentimento di identità.
Il mondo moderno e più ancora il mondo ipermoderno ci confrontano con un insieme di sconvolgimenti acuti che colpiscono la base narcisistica del nostro essere, nella misura in cui il contratto intersoggettivo ed intergenerazionale è sconvolto o addirittura distrutto; quel contratto che ci assicura, attraverso l’investimento collettivo e gruppale, del nostro posto in un insieme, e che ci obbliga a investire a nostra volta la collettività ed il gruppo per assicurarne la conservazione. Di conseguenza, le credenze e i miti che assicurano la base narcisistica della nostra appartenenza a un insieme sociale, sono anch’essi sconvolti; lo stesso accade per i “grandi racconti” che fornivano le matrici del senso comune e condiviso, di fronte agli enigmi della vita e dell’universo.
Nelle società ipermoderne il legame è, a dir poco, in crisi: tanto il legame degli individui, con le diverse componenti della vita sociale culturale, quanto il legame fra gli individui. Dico individui e non soggetti, poiché ciò che è precisamente in difficoltà è il processo di soggettivazione. Dopo N. Elias, i sociologi hanno proposto la nozione di società degli individui per qualificare l’emergenza storica dell’individuo nella società di massa, ma questa nozione segnala al tempo stesso l’illusione individualista, il rischio della riduzione dell’individuo ad atomo sociale, definito da una funzione univoca e parziale di produttore, di consumatore o di agente di servizio.
Il processo e le formazioni collettive “senza soggetto”
La nozione complessa di processo senza soggetto descrive bene questa situazione. Negli anni ‘30 del secolo scorso, al momento dove le dittature si installano in Europa, M. Heidegger riprende, al seguito di Hegel e Marx, il concetto di processo senza soggetto. Si qualificava così l’era delle masse, illustrata all’epoca dai film di F. Lang, Metropolis, M. Il Mostro di Dusseldorf. Filosofi, sociologi, storici, psicoanalisti hanno descritto con linguaggi particolari questo fenomeno generale: il sapere e la volontà umana non sembrano più avere presa e controllo sui processi ai quali sono sottomessi e che essi stessi contribuiscono ad attivare. I processi che li governano sembrano obbedire a delle causalità o totalmente fortuite, o totalmente determinate, in tutti i casi inaccessibili a un controllo responsabile.
Il pensiero post-heideggeriano si esprimerà nella filosofia della disseminazione del soggetto (Derrida) o nelle tesi secondo le quali i processi che organizzano la storia e la società non hanno più una finalità ed è del tutto vano cercarvi un senso. Ogni costruzione comune, legata ad una volontà intenzionale, sarebbe soltanto un’illusione.
I processi senza soggetto non dipendono dall’azione della (singola) persona, ma sono il risultato dell’azione di tutti. In questo senso sono anonimi, inclusi, nascosti e agiti nel gruppo o nel sistema a-soggettivo del collettivo. Analizzando la figura di Satana e il ciclo mimetico, R. Girard scrive che “il vero manipolatore del processo, il soggetto della struttura nel ciclo mimetico, non è il soggetto umano che non coglie il processo circolare nel quale è preso, ma piuttosto il mimetismo stesso”.
Questi filosofi annunciano, descrivono, denunciano o talvolta giustificano una delle derive, una delle aporie maggiori del mondo moderno. Da un lato rendono conto di una dimensione fondamentale della vita sociale, quando essa si impadronisce dell’intero spazio psichico, quand’anche abolisce, aliena o isola il soggetto, lo contrappone alla comunità, sottomettendolo al suo ordine, e suscitando come reazione l’ideologia individualista di protesta, la “società dell’individuo”. D’altra parte essi fanno una impasse completa sul rapporto co-costitutivo del soggetto e dell’insieme, dell’individuo e del gruppo, dell’identità e dell’alterità. L’altro, più d’un altro precede il soggetto, poiché è un altro, più d’un altro che per primo si rivolge a lui, lo investe e lo instaura nel mondo simbolico, dunque disgiunto e articolabile.
Processo senza soggetto e società degli individui sono in qualche modo complici nelle configurazioni contraddittorie, non prive di conseguenze sulla strutturazione della vita psichica, in particolare sull’attività di simbolizzazione e di soggettivazione, sul pensiero che lavora per donare un senso alla complessità. Questa attività simbolizzatrice è essenziale: essa sola permette di elaborare la dispersione, l’eterogeneità e lo scarto tra l’esperienza del mondo interno e quella del mondo ambientale, la tensione tra processo senza soggetto, intersoggettività e soggettivazione.
E’ proprio su questa tensione tra i processi senza soggetto – verso i quali vanno alla deriva i gruppi e le istituzioni, come pure sull’auto-alienazione del soggetto, e sul processo di intersoggettivazione dell’io, che il lavoro psicoanalitico apre uno spazio specifico. La tensione critica, o addirittura catastrofica, tra questi tre poli è ciò che costituisce una parte dominante del malessere nella cultura del nostro tempo.
Paradosso: se il processo senza soggetto mira allo spossessamento della soggettività del soggetto, è necessario che si strutturino e crescano le istanze collettive che formano i métasetting e i garanti, senza i quali non può emergere, strutturarsi e crescere, la vita psichica.
Alcune caratteristiche del malessere nel mondo contemporaneo
Molte caratteristiche delle nostre società ipermoderne sono implicate nel caos identitario e nei difetti di simbolizzazione che specificano il malessere contemporaneo. Ne ricorderò cinque.
La cultura del controllo
Essa è reattiva al disordine del mondo. Ha per obiettivo l’integrazione perfetta di tutti gli elementi della società in una Unità immaginaria, in modo tale che tutto ciò che potrebbe sfuggire al suo controllo sia recuperato, regolato o distrutto. Questo tipo di cultura produce una violenza regolata quando funziona e una violenza incontrollata quando si disgrega. Uno degli effetti della violenza sociale incontrollata è il terrorismo e la anomia: o essa distrugge tutte le leggi estranee al suo ordine proprio, oppure nessuna legge può imporsi a nessuno, tutte sono arbitrarie. Quanto alla violenza controllata, essa si applica in tutte le tecnostrutture. L’una e l’altra mettono in pericolo i garanti méta della simbolizzazione.
La cultura dell’illimitato e dei limiti estremi
Essa caratterizza l’affinità della nostra cultura con l’onnipotenza, ma anche con il traumatico e l’esperienza catastrofica. Essa è allo stesso tempo una cultura del pericolo, ma anche dell’impresa trascendente. Superare i limiti e drogarsi di lavoro, di successo o di droga sono diventati una condotta la cui radice comune è l’eroizzazione della morte. Essa ha per fondamento il rifiuto della castrazione simbolica e il trionfo del godimento senza limiti al servizio di un Ideale feticizzato.
La cultura dell’urgenza
Noi viviamo nell’urgenza perché l’orizzonte temporale si è ridotto a causa delle altre componenti della cultura dell’ipercontrollo, dell’indifferenzazione, dell’onnipotenza e della fascinazione per l’estremo. La cultura dell’urgenza e dell’immediatezza ha trasformato la temporalità nel mondo post-moderno. Il rapporto con il tempo privilegia l’incontro sincronico, il qui e ora: il tempo corto prevale sul tempo lungo, come lo zapping ed il nomadismo sulla continuità. Il legame è mantenuto nell’attuale, sfugge alla storia poiché la certezza che l’avvenire è indecidibile è la sola certezza.
Questa cultura si manifesta nel rapporto che noi intratteniamo con i progetti. Un progetto presuppone l’inscrizione di un’azione concertata, nella quale è incluso un rischio ed un’incertezza, in un tempo a venire. Un progetto può immaginarsi solo se possiamo non rifiutare il presente e pensare attivamente un rapporto con il passato. Molti dei nostri progetti non sono dei progetti, ma degli scenari di uscita dal marasma, nell’immaginario. La difficoltà di concepire e realizzare un progetto contribuisce alla disorganizzazione del pensiero che suscita la cultura dell’urgenza e della catastrofe.
Una cultura di malinconia
Essa caratterizza il fondo di lutto interminabile e inelaborato delle catastrofi del secolo scorso. Un lutto planetario: le morti di Dio e dell’Uomo, i genocidi, la “fine” della storia. La post-modernità ha accentuato gli aspetti persecutori e maniacali di questa perdita dei garanti métafisici, métasociali e métapsichici. E’ qui che si nutre la melanconizzazione del legame individuato da O. Douville. Contro il “disincanto” melanconico del mondo della modernità, la post-modernità coltiva a sua volta il catastrofismo, le promesse maniacali e i sogni di padronanza e controllo.
L’assenza del garante
E infine ciò che io chiamo l’assenza del garante. Una delle manifestazioni, se non una delle cause del malessere ordinario, è la progressiva cancellazione del soggetto, l’assenza del garante che risponda ai nostri interrogativi su ciò che siamo e diveniamo. La scomparsa del garante umano alle domande che noi formuliamo agli apparati amministrativi è la conseguenza dei grandi traumatismi che hanno squarciato la storia umana, distrutto la fiducia nell’umanità e hanno rimpiazzato i legami sociali e intersoggettivi, con delle macchine e degli automi. È la paura, l’insicurezza, l’angoscia muta e la violenza: i sogni non riparano più i microtraumi della vita quotidiana e le fictions dei media non fanno che addormentarli. Viviamo nell’impensabile e nell’impensato di queste esperienze, che sono sepolte dal diniego, isolate dalla scissione, ricoperte da risate meccaniche e danze maniacali al bordo dei vulcani e delle centrali nucleari. Sono la precarietà e le disperazioni create dagli esili, dai movimenti migratori, dall’esclusione, dalla disoccupazione, dagli sradicamenti. È l’incertezza sul presente, la diffidenza nei confronti delle trasmissioni che non generano avvenire o al contrario l’esaltazione ottusa dei fondamentalismi, l’estrema e fragile dipendenza dagli oggetti tecnici, dalle urgenze, dai legami effimeri, etc. ciascuno può compilarne la lista.
Queste fosche caratteristiche della postmodernità malinconica e dell’ipermodernità maniacale sono gli effetti dei mutamenti strutturali che hanno influenzato il campo sociale e culturale. Hanno modificato l’organizzazione e il funzionamento dello spazio intrapsichico ed i suoi rapporti con gli altri spazi della realtà psichica.
2. Il livello méta dell’analisi
Per analizzare la complessità del malessere del mondo moderno e dei suoi rapporti con la sofferenza psichica del nostro tempo, ho introdotto un livello méta dell’analisi. E’ a questo livello di setting e di garanti méta, soprattutto delle articolazioni del setting e dei métasetting, che può apparire la complessità del problema, come anche i principi efficaci del trattamento del malessere. Il gruppo appare subito come un’organizzazione méta in rapporto allo spazio intrapsichico del singolo soggetto.
L’idea centrale è che il mal-essere contemporaneo è il risultato di una destabilizzazione dei métasetting sociali, essi stessi garanti dei métasetting psichici necessari e fondatori della vita intrapsichica di ogni singolo soggetto. Questa fragilizzazione dei garanti méta induce la sofferenza psichica e il funzionamento dei gruppi, delle famiglie e delle istituzioni.
I garanti métasociali
Il concetto di garanti métasociali, è stato introdotto dal sociologo A. Touraine nel 1965. Con questo termine si designano le grandi strutture dei setting e di regolazione della vita sociale e culturale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia. La loro funzione è di garantire una sufficiente stabilità alle formazioni sociali e attraverso ciò di dotarle di una legittimità incontestabile. Per fare un esempio, in Francia sotto l’Ancien Régime la figura del Re incarnava e unificava l’insieme di questi garanti métasociali. Per effetto della Rivoluzione francese, questi garanti si sono segmentati in più elementi: il nazionalismo, il capitalismo, le rivoluzioni sociali. Gli ideali democratici e liberali del XIXº secolo hanno contribuito a strutturare i grandi blocchi ideologici del XXº secolo.
Quando questi garanti métasociali si trasformano sotto l’effetto dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, dei conflitti sociali e dei movimenti migratori indotti da queste mutazioni, per effetto dello Spirito dei tempi e della distruttività delle guerre mondiali, le società sono confrontate a nuove gravi instabilità. Le grandi ideologie e le religioni del progresso non strutturano più le certezze, i sistemi di rappresentazione, i valori e gli orientamenti dell’azione collettiva : in queste condizioni le leggi e le proibizioni che regolano i rapporti sociali e interpersonali diventano sfumati, contraddittori, paradossali e inefficaci. Sono svalutati.
Un dato decisivo della modernità è stato il crollo delle credenze e dei “grandi racconti” (M. Foucault, M. Serres), che sostenevano orientamenti identificatori abbastanza comuni. Numerose espressioni mentali della post-modernità producono così dei significati paradossali, in seno ai quali coesistono i contrari, oppure rivendicano l’assenza di riferimenti privilegiati.
Nuove congiunture storiche ridefiniscono allora il “disagio nella civiltà” e, correlativamente, la strutturazione e i disturbi della vita psichica. Questa è minacciata dall’instabilità delle sue fondamenta, dalle fratture dei contenitori, di solito silenziosi, che strutturano come un setting e sostengono i processi del suo sviluppo.
Col venir meno dei garanti métasociali viviamo la trasformazione critica delle grandi matrici di simbolizzazione che sono la cultura, la creazione artistica, gli orientamenti di senso, in breve, tutte le conquiste della sublimazione e che Freud ha chiamato nel 1929 il lavoro culturale (die Kulturarbeit). Questi sconvolgimenti mettono fortemente in causa l’identità dei gruppi e delle collettività, ma anche i processi di socializzazione degli individui. Insieme cause e effetti, la violenza sociale e individuale, l’esclusione, le condotte devianti, la marginalità, sono l’espressione manifesta della crisi dei garanti métasociali e, di conseguenza, dei progetti sufficientemente condivisibili per costituire il vettore di una dinamica sociale creatrice di nuovi processi di socializzazione.
Le società postmoderne vivono questi cedimenti e questi fallimenti come generatori di incertezza negli orientamenti identitari di appartenenza, nei distintivi simbolici, nella funzione e nell’affidabilità delle istituzioni, nei sistemi méta-interpretativi. Questi orientamenti e questi sistemi sono ormai molteplici, più o meno mescolati, apertamente o sordamente conflittuali. Non segnalano necessariamente e automaticamente che la società ha assorbito le differenze.
I garanti métapsichici
L’ipotesi con la quale lavoro è che i cedimenti, le disorganizzazioni e le ricomposizioni dei garanti métasociali della vita sociale, colpiscono in primo luogo i garanti métapsichici della vita psichica.
Chiamo così le formazioni e i processi dell’ambiente psichico, sul quale si appoggia e si struttura la psiche di ognuno. Questi garanti sono costituiti essenzialmente dai divieti fondamentali e dai contratti intersoggettivi, che contengono i principi organizzatori dello psichismo. Essi formano così il setting e il sottofondo di questo. La mia proposta non è quindi di opporre il sociale allo psichico, e neppure di trattarli separatamente, bensì di tentare di articolarli.
Il lavoro psicoanalitico con i gruppi, le famiglie e le istituzioni ci insegna che la vita psichica e il diventare “Io” non possono svilupparsi altrimenti che sulla base dell’esigenza del lavoro psichico che viene imposto alla psiche dalla sua iscrizione nei legami intersoggettivi primari e nei legami sociali. Questa iscrizione si effettua attraverso un insieme di contratti, di patti e di alleanze, con natura e obiettivi diversi. Il difetto, il collasso o la disorganizzazione di questi contratti, patti e alleanze mettono in crisi quello che ho chiamato i garanti métapsichici.
Le alleanze inconsce come métasetting e garanti métapsichici
Si possono descrivere questi garanti métapsichici da diversi punti di vista. Le alleanze inconsce, i patti e i contratti esercitano questa funzione méta per ogni singola psiche e per tutti i soggetti di un insieme. Funzionano come dei métasetting.
Tra queste alleanze, alcune sono strutturanti: al contratto narcisistico, già evocato, bisogna aggiungere il contratto di rinuncia alla realizzazione diretta dei moti pulsionali, il contratto con la funzione paterna e quello tra Fratelli. Il patto di rinuncia reciproca alla realizzazione diretta dei moti pulsionali instaura la non-immediatezza. La deviazione imposta è opera dell’autorità che emana dalla rinuncia, e la funzione dell’autorità è di promuovere il pensiero, al posto del corpo a corpo. Questi patti e contratti riposano sui divieti fondamentali, implicano una co-rimozione e perciò contengono i principi organizzatori dello psichismo. Sono cofondatori dell’Inconscio. I divieti fondamentali sono implicati nella formazione delle identificazioni e dei processi di simbolizzazione, nell’accesso alla parola e al pensiero, nella trasmissione dei saperi e degli ideali, nella costituzione di una alterità interna e esterna. Le funzioni métapsichiche di queste alleanze strutturanti diventano riconoscibili quando sono in crisi o hanno fallito. Si crea allora una causa maggiore di malessere. Viene attaccata la capacità di essere, non si tratta solo di malessere.
La repressione delle pulsioni non basta. Il lavoro della cultura è una conquista sulle pulsioni distruttive e sul narcisismo. Ogni volta che il narcisismo è gravemente minacciato, queste conquiste sono messe in pericolo. Tuttavia né la repressione né i divieti fondamentali, né il lavoro della cultura riescono a mettersi al servizio del “progetto civilizzatore”, secondo l’espressione di Freud, se le alleanze non sono sufficientemente stabilite.
Così il venir meno del contratto narcisistico e le sue rotture espongono i soggetti e i gruppi ad esperienze dolorose di tradimento, di una trasmissione dispersa e al sentirsi diseredato. Mi è sembrato utile pensare il problema dell’esilio, del nomadismo, dell’erranza e dello spostamento, come sintomo di una dislocazione del contratto narcisistico. Dis-locazione va intesa come perdita del luogo psichico, quello della localizzazione culturale, della quale parlava Winnicott nel 1967: vi vedeva una estensione della nozione dei fenomeni, degli oggetti e degli spazi transizionali. “Utilizzando la parola cultura, penso alla tradizione che si eredita. Penso a qualcosa che è la sorte comune dell’umanità, alla quale possono contribuire gli individui e i gruppi, e dalla quale ciascuno di noi potrà ottenere qualcosa, se abbiamo un posto dove mettere quello che troviamo”. Penso che sia possibile caratterizzare il malessere contemporaneo con la difficoltà di costituire questo “luogo dove mettere ciò che troviamo”.
Altre alleanze sono difensive, come il patto denegativo, e alcune comportano una deriva patologica (il patto di diniego in comune e il contratto perverso).
Tutte queste alleanze preesistono al nuovo-nato e si allacciano o si riallacciano con tutti i contemporanei. Lo spazio psichico comune e condiviso dai membri di una famiglia, di una coppia, di un gruppo o di un’istituzione, contiene delle formazioni métapsichiche di questo tipo. Queste formazioni sono sensibili alle strutture profonde della vita sociale e culturale. Tutte queste alleanze sono decisive nella formazione dei legami intersoggettivi sufficientemente strutturati e stabili, condizione necessaria alla costruzione di quello che Piera Aulagnier ha chiamato “lo spazio dove l’Io può avvenire”.
Oggi il nostro compito è quello di reperire la loro incidenza sulle forme di soggettività che esse generano. È anche quello di pensare a ciò che il gruppo può e non può, quando è strutturato come dispositivo appropriato per un lavoro psicoanalitico. E’ su questo argomento che vorrei terminare.
3. Quello che può o che non può il dispositivo di lavoro psicoanalitico di gruppo di fronte al malessere
L’ho annunciato fin dall’introduzione: i dispositivi di lavoro psicoanalitico in situazione di gruppo, aprono nuove prospettive all’analisi e alla cura delle “sofferenze psichiche d’origine sociale”. Permettono di prendere in considerazione la pluralità degli spazi psichici, il disordine delle funzioni di setting e di garante di certe organizzazioni métapsichiche e métasociali, lo sviluppo di “processo senza soggetto”, gli effetti dell’assenza del garante.
I dispositivi di gruppo mostrano che la psiche “individuale” è inquadrata dai garanti métapsichici della vita psichica. Tanto più che il gruppo è un luogo privilegiato di emergenza dell’arcaico, e nello stesso tempo il luogo di simbolizzazione della distruttività e del lavoro della cultura.
Poiché il gruppo è un’interfaccia tra lo spazio interno e lo spazio sociale e culturale, il lavoro psicoanalitico di gruppo ci consente di confrontarci col fatto che noi tutti siamo depositari di eredità collettive non-pensate, quelle della violenza distruttiva, delle guerre, dei traumatismi cataclismatici, dei dinieghi di massa. L’esperienza del gruppo ha importanti e segrete affinità con una grande varietà di esperienze traumatiche anteriori. E’ qui che il gruppo ci confronta con l’incontrollabile, con l’indecifrabile, con tutto ciò che è privo di senso, di presa, di controllo.
Ma sappiamo anche che il lavoro di gruppo è l’occasione per accedere a questo non-pensato, per cominciarne l’elaborazione, e per fare l’esperienza che noi siamo anche i depositari di eredità collettive pensabili, pensate e generatrici di pensiero.
Ciò che è al lavoro nella psiche di ogni soggetto nei gruppi condotti secondo il metodo della psicoanalisi, sono i rimaneggiamenti identificatori, le funzioni di contenitore e contenuto, le alleanze inconsce, la capacità di pensare i processi senza soggetto e di ristabilire la soggettivazione nell’intersoggettività, il lavoro dell’interdiscorsività.
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La psicoanalisi che organizzava la visione di Freud a proposito del “Disagio nella civiltà” è cambiata, come è cambiata la cultura stessa. La nostra concezione endogena della psiche non può più disconoscere le condizioni culturali e insieme intersoggettive della vita psichica. Al di là dei rapporti della cultura del mondo moderno con la malattia psichica del nostro tempo, la questione riguarda lo sconvolgimento della nostra stessa concezione della psiche, della sua genesi, dei suoi limiti e del suo funzionamento ; e questo cambiamento ci impegna in una critica dell’epistemologia psicoanalitica.
Il lavoro psicoanalitico di gruppo offre un altro accesso per pensare in modo diverso il malessere psichico nella cultura delle società ipermoderne, la costruzione della soggettività e le risorse creative, che vengono liberate dalle crisi di questa ampiezza.
In questo sconvolgimento, possiamo sperare in un avvenire per la psicoanalisi, a condizione che le riesca di superare il proprio malessere.
Bibliografia:
R. Kaës, 2009, Les alliances inconscientes, Paris, Dunod.
Traduzione italiana: Le alleanze inconsce, 2010, Roma, Borla.
R. Kaës, 2012, Le Malêtre, Paris, Dunod. In traduzione presso Borla.
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