Il titolo che ho voluto dare a questo mio intervento vuole mostrare le trasformazioni, che sono avvenute sul filo del tempo, della mia personale rappresentazione di Giovanni Hautmann, di come si sia costruita e poi, via via, modificata nella mia mente la sua immagine di psicoanalista, di studioso, di ricercatore di psicoanalisi e la sua figura istituzionale.
A quanti, come me, negli anni settanta dello scorso secolo erano Candidati della SPI Giovanni Hautmann appariva il severo custode del rigore teorico-clinico e istituzionale, anche in virtù della carica che all’epoca e per molti anni ha ricoperto di Segretario della Commissione Nazionale del Training, Commissione,questa, dalla quale dipendeva il lasciapassare definitivo per l’ammissione dei Candidati alla discussione dei casi clinici condotti in supervisione, cosa che preludeva alla elezione a Membro Associato.
Negli anni successivi questa immagine di rigore ha trovato una conferma, su di un piano meno emotivo, nella lettura dei suoi lavori e nell’ascolto delle sue relazioni e dei suoi interventi nei Congressi e nei Convegni ai quali si partecipava. Molti di noi, e io fra questi, eravamo colpiti dalla complessità del suo pensiero e dal rigore delle argomentazioni che portava a sostegno delle sue tesi. Questo, forse, teneva qualcuno lontano dalle sue idee perché spaventato dall’impegno intellettuale che richiedeva l’avvicinarsi al suo pensiero ma su di altri esercitava un non piccolo fascino. Anche sul piano tecnico-clinico Hautmann irradiava un’immagine di grande rigore, a partire dall’affermazione dell’opportunità che la cura psicoanalitica si svolgesse con la frequenza di cinque sedute per settimana, cosa che in Italia, anche in quegli anni, non era certo abituale. Con il passare del tempo e, quindi, con l’acquisizione di una maggiore dimestichezza, dapprima con il suo pensiero e poi con la sua persona, se, da un lato, l’immagine di rigore ha trovato conferma, dall’altro, essa è andata a sovrapporsi e poi a svelare una creatività, dapprima, prevalentemente teorico-clinica, e, poi, sorprendentemente epistemologica fino a mostrare dei tratti umani che non apparivano nella immagine iniziale. Ma di quest’ultima cosa farò cenno alla fine.
Per ora rimaniamo sul piano del suo pensiero.
Come ho avuto modo di dire e di scrivere alcuni anni or sono in occasione della presentazione e della recensione del suo volume “Funzione Analitica e Mente Primitiva” il primo oggetto di ricerca originale per Hautmann è stato l’individuazione dei processi genetici della mente, vale a dire l’emersione del funzionamento psichico dal funzionamento fisiologico dell’organismo. Il risultato di questa ricerca è stata la formulazione della teoria della formazione di una prima pellicola di pensiero che si sviluppa nella direzione della formazione della mente separata il cui corrispettivo patologico è lo splitting cognitivo primario. Correlato a questa ricerca è il suo interesse per la dimensione inintegrata del Sé o Sé gruppale e per le sue evoluzioni verso il Sé separato, intese come passaggio dalla condizione adimensionale asimbolica alla progressiva simbolizzazione.
L’attenzione alla dimensione asimbolica della mente lo ha condotto a formulare la nozione di elemento ? in aggiunta agli elementi a e ß di Bion. La caratteristica degli elementi ? sarebbe quella di una labilità dei legami con l’energia fisica e l’impossibilità di trasformarsi in elementi a. Essi sarebbero caratteristici della condizione autistica che Hautmann ha studiato a partire dalla sua pratica di psicoanalista dell’infanzia. Vediamo in questa brevissima esposizione dei punti più salienti del suo pensiero che il riferimento a Bion è fondamentale ma riflettendo sulla sua creatività scientifica dobbiamo tener conto che mentre oggi Bion è un autore molto presente nella cultura psicoanalitica italiana, tale non era a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta quando Hautmann si è avvicinato al suo pensiero.
A quell’epoca Bion era percepito come un personaggio bizzarro, forse un po’ matto, estremamente astruso e la descrizione che Hautmann fa dei primi incontri con lui durante i tre seminari che questi tenne a Roma nel luglio del 1972 ci mostra che solo qualcuno fortemente interessato ai processi di formazione del pensiero e disponibile a sopportare la frustrazione di un procedimento di pensiero così divergente rispetto alla logica dei processi secondari, quale era la prassi operativa di Bion nei seminari, poteva tollerare una simile pressione emotiva ricavandone anzi uno stimolo a procedere oltre. D’altro canto non dobbiamo trascurare che prima di Bion un suo riferimento era stato Marcelle Spira che, oltre ad indirizzarlo allo studio di Bion, era colei che si interrogava sulla origine dei processi psichici che portano la mente dell’analista a formulare un’interpretazione.
Questa attenzione alla formazione dei processi di pensiero e, quindi, al problema della formazione della conoscenza che, a mio avviso, costituisce la cifra caratterizzante del lavoro teorico di Hautmann mostra come la dimensione creativa di questo autore si riveli in controluce sotto il più visibile rigore concettuale e clinico. Ma l’attenzione ai processi di pensiero e al problema della conoscenza colloca Hautmann in una prospettiva culturale che, a mio parere, trascende il campo della psicoanalisi pur mantenendo in esso le sue radici e la sua fonte di ispirazione. Io credo, infatti, che quando l’oggetto dell’indagine diventa il pensiero e, quindi, il processo della conoscenza si entra nel campo della epistemologia e della filosofia. Freud e Bion lo hanno fatto anche se entrambi si sono alquanto schermiti affermando di non essere né epistemologi né filosofi. Anche Hautmann entra in questi domini epistemici ma anche lui lo fa dichiarandosi semplicemente psicoanalista.
Tuttavia io credo che quando si indaga su questi oggetti epistemici e si propone una teoria psicoanalitica del pensiero e della conoscenza si diventa, di fatto, epistemologi e filosofi. Soltanto Lacan e dopo di lui altri psicoanalisti in Francia, forse per le differenti condizioni culturali che ci sono in quel paese, hanno avuto l’ardire di dichiarare che non si tratta di fare l’epistemologia della psicoanalisi, cioè di indagarne lo statuto epistemologico ma di affermare che anche la psicoanalisi può sottoporre le altre discipline ad un’indagine psicoanalitica e fondare una sua teoria della conoscenza che esce dalle mura della stanza d’analisi per investire altri campi del sapere. Infatti, forse per un eccesso di understatement, quello che alcuni psicoanalisti, e Hautmann tra questi, non sembrano prendere in considerazione è che l’attenzione all’apparato per pensare psicoanaliticamente implica un’attenzione all’apparato per pensare tout-cour, quindi un’attenzione ai temi filosofici pur senza confondersi con la filosofia stessa. Io credo che quello che hanno fatto Freud, Bion, Lacan e altri, e che anche Hautmann fa, non è semplicemente “fare filosofia” ma, a partire dalla “sonda psicoanalitica, – penso che questo temine bioniano possa piacere ad Hautmann – ebbene, a partire dalla “sonda psicoanalitica” arrivare ad una visione dell’uomo, cioè ad un’antropologia psicoanalitica. In Hautmann questo interesse è testimoniato dalla sua riflessione a proposito della “Babale creativa” cui fa cenno nel suo volume “La psicoanalisi tra arte e biologia” in cui si coglie una vicinanza con le epistemologie anarchiche stile Feyrabend.
A proposito dell’allargamento del pensiero psicoanalitico ad altri domini del sapere è opportuno ricordare che dalla formulazione della nozione di elemento ? prende le mosse una riflessione sulla creazione artistica e sull’esperienza mistica, intese come espressioni della impossibilità per l’artista di realizzare un processo di simbolizzazione e quindi una trasformazione in K, per cui quello che può realizzare è una trasformazione in 0, un “essere all’unisono”. Esperienza questa che, a partire dalla condizione psicopatologica dell’autismo, si estenderebbe alla creazione artistica e all’esperienza mistica.
Non voglio appesantire oltre il mio discorso con riflessioni filosofiche e teoretiche ma farò un’ultima notazione prima di chiudere.
Ho già detto che l’immagine di Hautmann negli anni settanta, almeno per quelli di noi che erano ancora Candidati, era quella di un rigoroso e severo guardiano dell’ortodossia clinica e istituzionale, ebbene con il tempo e con una frequentazione più ravvicinata, soprattutto negli ultimi 15 anni, devo dire che se l’immagine di un rigore del pensiero e di un’argometazione stringente si è confermata, ho avuto anche modo di verificare le sue straordinarie doti umane, la sua tolleranza e disponibilità ad accogliere l’altro e, nelle Commissioni del Training nelle quali abbiamo avuto modo di lavorare insieme, ho notato che spesso è stato il più aperto, il meno duro nelle valutazioni pur mantenendo sempre una precisione e un’accuratezza nei giudizi.
E’ per la somma di tutte queste cose che credo che non soltanto noi che siamo qui presenti ma tutta la SPI e l’intera comunità psicoanalitica italiana, dobbiamo dire “Grazie Giovanni”.