Venerdì 28 settembre – ore 21.00
Poetry
di Lee Chang-Dong
(Corea del Sud, 2010, 139′)
In una piccola città della provincia coreana, una donna non più giovane, affetta dal morbo di Alzheimer, si iscrive a un corso di poesia. Un drammatico avvenimento rischia di alterare la sua esistenza: il nipote affidato alle sue cure è coinvolto nell’aggressione di una compagna di scuola che in seguito si è suicidata.
Intervengono: Matteo Borri e Stefania Nicasi
Discute il film, con Stefania Nicasi, il filosofo Matteo Borri autore di Storia della malattia di Alzheimer, Il Mulino 2012.
Commenti a Poetry
Commento di Matteo Borri
Ho guardato questo film più volte e in occasioni diverse. La prima impressione che ho avuto è che il regista abbia fatto una scelta di fondo e cioè quella di utilizzare un duplice canale narrativo. Poetry è termine inglese che significa poesia e il film mantiene questa prima valenza semantica ma, al tempo stesso, ci conduce in un altro percorso attivo, verso una “poetizzazione” della vita stessa. Le immagini che si riferiscono allo scorrere del quotidiano, della vita, i luoghi della storia sono i campi nei quali e sui quali viene agita una dimensione poetica.
Il primo intento è chiaramente esplicitato dal plot del film: la trama ci presenta una anziana, distinta, signora che si iscrive a un corso di poesia e ricerca le “regole” del linguaggio poetico per diventare poetessa. Il secondo – implicito e quindi fortemente legato all’interpretazione dello spettatore – sembra alludere alla poeticità nascosta che ogni vita porta con sé. Su questo aspetto torneremo a breve. Analizzando il plot “ufficiale” – il contenuto manifesto del film – vediamo come la ricerca della poesia intesa come azione linguistica raggiungibile attraverso l’assunzione di regole di composizione sia complicata dalla quotidianità che la protagonista si trova a vivere e che – va da sé – il regista inventa per il film. Ma proprio questo concatenarsi di eventi ci permette di legare indissolubilmente il linguaggio esplicito delle scene girate alla seconda – soggettiva – chiave di lettura.
Il film mostra un momento di vita in un paese asiatico: la Corea. La protagonista abita vari mondi: come nonna mantiene il nipote che abita con lei; come badante accudisce un suo coetaneo non autosufficiente. Nel tempo libero decide – così inizia il film – di frequentare un corso di poesia. E la ricerca dell’ispirazione poetica diventerà, man mano che il film prosegue, la priorità dell’anziana signora.
Durante i 139 minuti del film, due sono gli eventi che maggiormente sembrano stravolgere la routine quotidiana della protagonista. Il primo è la scoperta che suo nipote, partecipando con altri coetanei a uno stupro collettivo, ha determinato il suicidio di una giovane ragazza. Il secondo è il ricevere la diagnosi di una grave malattia: l’Alzheimer.
Il plot narrativo si sofferma in modo significativo e a lungo da un lato sulle dinamiche che si scatenano in relazione alla violenza subita dalla giovane ragazza e, dall’altro, sulla malattia dell’anziana signora, malattia che resta comunque sullo sfondo, quasi usata solo come pretesto dal regista, più che come caratterizzazione vera e propria della protagonista. Ricordiamo che l’anziana signora quando si accorge dei suoi vuoti di memoria, quando non trova le parole per parlare del (e nel) mondo che la circonda, si difende scherzando, offrendo all’interlocutore un sorriso cortese. È però proprio la presenza – percepita oramai come ingombrante – della diagnosi ad aprire il passaggio alla metalettura del film. I due elementi sopracitati rappresentano la dimensione tragica per la protagonista e sono, per il regista, una polarità della vita alla quale applicare una prospettiva di sviluppo e speranza. La tragicità della morte dell’amica del nipote si trasforma per la protagonista nel tentativo di risarcire a livello economico la madre della ragazza, la tragicità della coscienza di una malattia inesorabile come l’Alzheimer si trasforma in una spasmodica ricerca dell’ispirazione poetica. In realtà la malattia non è tanto un esplicito medico quanto un implicito che il regista usa per condurre la narrazione a un livello più profondo che può essere individuato nella ricerca di dimensioni di vita che siano caratterizzate da un alto grado di significatività.
Poetry ci conduce quindi in un delicato intreccio fra l’esplicito e l’implicito, fra un accadere storico contingente e una tensione interna che conduce la vita a metamorfosi pregne di significato. La protagonista ci accompagna in quel processo di “agire la bellezza” – attraverso la poesia nel suo caso – e in quello di “accedere alla giustizia” (verso e per il nipote), chiamando in causa il commissario di polizia, che donano entrambi una intensa dimensione di senso all’opera di Lee Chang-Dong.
Commento di Stefania Nicasi:
L’originalità di questo film consiste nel cucire insieme una malattia che comporta il deterioramento del linguaggio, la vecchiaia che comporta una diminuzione della presa sul mondo, l’irrompere del male e la poesia come possibile risposta o meglio come possibile cura. Li cuce così bene che guardando la protagonista ci chiediamo: si comporta così perché sta invecchiando, perché le è stato diagnosticato un principio di Alzheimer o perché ha l’animo di una poeta?
Comincio col notare il particolare modo di stare nel mondo della signora Yang Mija che fin dall’inizio sembra terribilmente svagata e terribilmente attenta. Pensate alla scena di fronte all’ospedale, a quella nella drogheria, al primo incontro con i padri dei ragazzi, quando abbandona la riunione nel punto culminante per avvicinarsi ai fiori di colore rosso. Le cose sembrano non toccarla eppure, successivamente, si ha l’impressione che ne abbia avuta una comprensione profonda. Appare stramba, manierata e un po’ fatua ma colpisce il bersaglio con precisione inesorabile. Nel film questa particolare mescolanza di svagatezza e precisione è resa con il gioco del volano, una versione aerea e infantile del tennis dove la protagonista non perde una battuta. La signora Yang Mija cerca la bellezza e arriva alla verità: la poesia in fondo è questo, tutto il resto appartiene all’ordine dei discorsi.
Sono discorsi quelli del preside preoccupato di tutelare il buon nome della scuola e quelli dei genitori preoccupati di tutelare il futuro dei figli. Sono discorsi le lezioni di poesia. Una fanciulla è stata uccisa. La signora Yang Mija sta perdendo il linguaggio dopo avere perduto la giovinezza e il suo splendore. Nel denunciare il crimine invece che coprirlo, afferma la verità attraverso la parola ritrovata, una parola che genera bellezza, una bellezza che genera autentica salvezza per il nipote e per tutti, anche per noi. E’ questo il miracolo che compie la poesia: “Ti ringrazio Luciano perché mi hai salvato” scrisse Luigi Settembrini che durante la prigionia si era tenuto vivo leggendo le opere di Luciano.
La poesia è un enigma, un celebre saggio di Borges si intitola appunto “L’enigma della poesia”. Nel film troviamo vari tentativi di definirla. Poesia è vedere le cose, metterle a fuoco: “Per descrivere un fuoco che avvampa o un albero della pianura – insegnava Flaubert a Maupassant – dobbiamo restare davanti a quel fuoco o a quell’albero finché essi non assomigliano più per noi ad alcun altro albero o altro fuoco” (Cfr. Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti 2004, 61). Poesia è sentire: gli allievi sono invitati a concentrarsi sulle proprie emozioni. Poesia è memoria: gli allievi sono invitati a ricordare. Ma la poesia non scaturisce direttamente dalle cose: la poesia è linguaggio all’interno di una tradizione poetica e per scrivere una poesia bisogna conoscere altre poesie. Vediamo la signora Yang Mija ascoltarne la lettura. La poesia è attaccarsi a qualcosa e sapersene allontanare: ricordate cosa dice il commissario commentando una poesia? Dice che è un po’ come il bacio: la lingua va, la lingua viene. La poesia è insieme l’aderire della lingua alle cose e il suo distaccarsene. E’insieme vaghezza, come diceva Leopardi, e precisione, come sapeva Flaubert, specificità infinita. La poesia è una forma di amore: come la signora Yang Mija si dona al vecchio per farlo sentire uomo ancora una volta, così il poeta ci riconduce sempre alla nostra umanità attraverso la sua.
Una persona, con la diagnosi di un principio di Alzheimer, sta perdendo i nessi che tengono uniti i significanti ai significati, i nomi alle cose. Questa persona cerca di curarsi attraverso la poesia. In effetti, la poesia ha a che fare con una destrutturazione della lingua, nella misura in cui il poeta smonta i nessi consueti e ne inventa di nuovi. L’Alzheimer e la poesia sono immaginati dal regista come epochè del linguaggio o, come direbbe Roland Barthes, grado zero della scrittura.
La signora Yang Mija entra in contatto con il suicidio di una adolescente e ne ricostruisce la storia individuando le responsabilità di ciascuno. Dirige lo sguardo su una susina e intuisce il sacrificio di una fanciulla, intuisce la verità. Se vedesse soltanto la susina, il blu lucente della sua pelle, non sarebbe una poetessa, ma solo un’ esteta. Scoperta la verità, la denuncia. Al commissario, sorta di tenente Colombo, che la vede piangere. Al mondo, con una poesia che si intitola “Canzone per Agunes”. Cosa può una fragile signora sul viale del tramonto contro la protervia dei ragazzi e la complicità degli adulti? Cosa può contro il male un poeta con il suo foglio di carta e la sua matita?
Kafka aveva detto che il poeta è uno che salta fuori dalle fila degli assassini, ma visto che siamo in Corea, ascoltiamo la voce di un coreano che ha pagato con anni di carcere il suo impegno poetico per la verità. La voce di Ko Un (Ko Un, Fiori d’un istante, Cafoscarina, Venezia, 205, 158):
Un poeta nasce negli spazi tra crimini,
furti, uccisioni, violenze,
nelle zone più oscure di questo mondo.
L’animo di un poeta è un solitario grido di verità
La signora Yang Mija scrive la sua poesia “Canzone per Agunes”. Forse non è magnifica eppure si compie il miracolo: la verità coincide con la bellezza, la superficie con il fondo. Quello che giaceva nascosto adesso appare, come il corpo di Agunes portato dalla corrente del grande fiume azzurro che progressivamente si mette a fuoco nella scena iniziale del film.