Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica “Narcisismo e creatività” di Franco Borgogno
Firenze, Auditorium Ente Cassa di Risparmio, 21 Aprile 2012
Franco Borgogno
Nel cuore e nella mente propria e altrui.Il percorso di un analista d’oggi fra tradizione e creatività
Parlerò a voi stamattina di psicoanalisi come metodo di cura della sofferenza psichica. Sotto forma di intervista immaginaria, presenterò in sostanza una mia testimonianza del mio modo di essere psicoanalista negli ultimi quindici anni. Nel corso d’essa affronterò alcune tematiche, come per esempio: “Come sono arrivato alla scelta del mestiere di psicoanalista”; “Fare lo psicoanalista è una professione o una vocazione?”; “Quali sono i libri, gli autori e i colleghi in carne e ossa che più hanno contribuito alla mia formazione”; “Quali sono i miei specifici contributi alla psicoanalisi d’oggi”; “Che cos’è per me la psicoanalisi e qual è la sua funzione terapeutica elettiva”…e così via.
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Partirò immediatamente da “come sono arrivato alla scelta di questo mestiere”.
Sebbene non sia cresciuto in una famiglia davvero attenta ai bisogni e ai sentimenti dei bambini e degli adolescenti, ho sempre avuto l’idea che esistesse da qualche parte “qualcuno” che mi avrebbe potuto capire comprendendo il mio mondo di aspirazioni, fantasie e angosce. Questo non significa che non abbia vissuto momenti di disperazione e di profondo pessimismo, ma nonostante ciò ho serbato l’idea di poter essere ascoltato anziché dover ascoltare gli altri, gli adulti; e a un certo punto ho identificato – non saprei dire come ma forse dalle letture (divenni dopo i miei sedici-diciassette anni un avido lettore) – che fosse la psicoanalisi il luogo dove avrei potuto incontrare questo “qualcuno”. Un “qualcuno” che mi sono sempre raffigurato in “carne e ossa”, visto che nella mia educazione mi si chiedeva di credere in Dio o in valori che trascendevano le persone che, trasmettendoli a parole, avrebbero invece dovuto incarnarli nella pratica, cioè nel loro rapporto con sé e con gli altri, mentre di fatto il più delle volte non succedeva questo.
Potrei dire quindi che sono arrivato alla psicoanalisi sulla base di questa mia credenza e di una florida inclinazione a idealizzare, tanto che il mio primo analista non è stato per nulla un modello di ascolto sollecito e capace di una risposta visibile e udibile sul piano verbale ed emotivo, ma semmai un essere totalmente silente e misterioso che ha fatto sì che mi dessi molto da fare per trovare altri “partner” che svolgessero le funzioni che avrebbe lui dovuto svolgere. Avevo allora all’incirca 20-21 anni. Successe pertanto che, andando alle sedute di analisi e non ricevendo alcun commento e interpretazione malgrado le mie reiterate richieste, ben presto iniziai a procurarmi dei “sostituti” che nel “dopo-seduta” mi avrebbero dovuto ascoltare e rispondere, talvolta anche di notte. Imparai così a posteriori da questa diretta e vivida esperienza che cos’è l’acting out (e cioè il comportamento agito fuori dalla seduta) del paziente favorito dall’analista, ma – a prescindere da ciò – sarei disonesto a non menzionare alcune ottime caratteristiche del mio primo analista: l’assoluta non interferenza con i miei programmi e progetti di vita, e il concedermi la più completa autonomia. Un bel contrasto, questo, con la mia famiglia, una famiglia che mi voleva già “programmato” e che mi chiedeva continuamente di “cambiare” per adeguarmi alle loro idee e ai loro progetti.
Ho continuato perciò, successivamente a questa prima analisi, a procedere a lungo da solo mantenendo però intatta la mia idealizzazione della psicoanalisi e soltanto con l’inizio della mia seconda esperienza analitica, avendo sperimentato un nuovo genere di analista che già alla prima seduta aveva fatto sei o sette commenti, ho constatato “cosa volesse dire trovarsi con una persona reale, in carne e ossa”: fatto, quest’ultimo (il trovarsi con una persona reale in carne ed ossa), che mi ha portato a importanti considerazioni sulla differenza fra “l’essere in relazione con un oggetto esterno” e “l’essere in relazione con un oggetto interno”. Detto in altre parole, importanti considerazioni sul narcisismo che consegue all’essere rimasti troppo soli e privi di interlocutori veramente interessati a te. Oltre a ciò, il secondo analista – “configurandomi” già in prima seduta a partire dal mio cognome come un “buon vino”, il “Barolo Borgogno” (la mia famiglia di origine non ha nulla a che fare con i vini Borgogno) – mi indicò subito in questo modo quanto importante sia il credito che ogni bambino e adolescente deve ricevere per giungere a credere in se stesso.
Per riassumere quanto sin qui ho detto, vorrei ancora precisare che la psicoanalisi è stata per me sin d’allora un’esperienza speciale di conversazione in cui si viene ascoltati, compresi e soprattutto si ottiene una risposta: un qualcosa, tutto ciò, che nel concreto dei fatti non è per nulla scontato e che a noi psicoanalisti è divenuto via via più evidente soltanto nell’ultimo quarto del secolo appena terminato.
Per apportare infine un’ultima aggiunta, facevo già sin da piccolo lo psicoanalista in erba, ero ossia un po’ “maghetto”: il mio gioco preferito era indovinare cosa vi fosse nel cuore e nella mente altrui. Un gioco per come lo vedo oggi doloroso, perché quando uno fa questo gioco vuol dire che sente gli altri lontani ed enigmatici e di conseguenza diventa mago per sopravvivere nel suo ambiente e per prevenire – attrezzandosi difensivamente – gli accadimenti della vita.
2. Passo ora al secondo punto su cui vorrei soffermarmi: “il mestiere di psicoanalista è una professione o la realizzazione di una vocazione?”
Per me è stata una sorta di “chiamata” dal preconscio, preannunciata da sogni, uno dei quali ho descritto in The Vancouver Interview (Borgogno, 2007). Quando, adolescente, decisi di intraprendere un’analisi sapevo, ma non so come (visto che a quel tempo nessuno intorno a me parlava di psicoanalisi), che quella sarebbe stata la mia opportunità e il mio destino di vita, come difatti è stato. Certo, però, per diventare psicoanalisti non basta sentire quella che ho definito una “chiamata” e neppure essere predisposti e curiosi rispetto all’ascoltare gli altri e “indovinarne” i sentimenti e i pensieri. Il talento e la predisposizione sono, perciò, indubbiamente importanti ma non sono affatto sufficienti per fare di una persona uno psicoanalista; necessitano infatti di “un lungo confronto con qualcun altro” che ti indichi come percorrere la tua via e che ti sostenga nel tuo progetto.
È dunque essenziale l’analisi personale, l’incontro con qualcuno più vecchio e più saggio di te, soprattutto per comprendere le reazioni dell’altro alle tue parole e alle tue emozioni e anche le tue reazioni alle parole e alle emozioni dell’altro, e quindi – in concomitanza – il dialogo con i tuoi pari: con un “gruppo di fratelli e di sorelle” con cui stai condividendo un cammino. Il mestiere di analista, in pratica, non lo puoi apprendere da solo, anche quando sei portato ad esso dalla tua storia di vita; lo impari piuttosto dall’aprirti e dal discutere con gli altri la tua esperienza personale e la tua esperienza clinica, dal venire a conoscere (e rimanerne curioso) cosa fanno e sperimentano gli altri rispetto a cosa fai e sperimenti tu. Solo più avanti, costruita questa base, arrivi a essere te stesso anche sul lavoro e scopri che ogni scelta che devi affrontare non può che essere fatta in solitudine, cioè proprio da te, e che nessuno può prendersi la responsabilità della tua vita e del tuo lavoro con i pazienti, ma la speranza che qualcuno abbia una chiave e che lo possa fare per te “dandoti una soluzione” è dapprincipio dura a morire.
È comunque importante anche più avanti poter ricorrere agli altri quando ci si trova in stato di necessità, senza che questo voglia dire idealizzare gli altri rispetto a te e a scapito tuo: un buon “fine analisi” dovrebbe permetterti questo, senza che tu ti senta umiliato o in difetto se ti trovi in difficoltà e hai bisogno di aiuto. Un altro sguardo, un altro ascolto, sono sempre fondamentali, tanto più quando ti stai occupando di pazienti molto difficili o stai attraversando un periodo “buio” della tua esistenza, anche se a volte è già sufficiente l’iniziare a esprimere ad alta voce e di fronte a un altro le tue preoccupazioni e le tue perplessità.
3. Affronto adesso brevemente il tema di “quali sono stati i libri che più hanno contribuito alla mia formazione e perché, e quali sono stati i colleghi «in carne ed ossa» che più mi hanno influenzato nel mio percorso”.
Per quanto riguarda i libri, è difficile dire quali siano stati i libri più importanti per me perché amo molto leggere e sono molto interessato a come gli altri pensano, seppure invecchiando io legga assai meno rispetto a prima. Ciononostante mi piace essere sorpreso da pensieri nuovi e da modi alternativi di descrivere e affrontare i problemi teorici e clinici che pongono i pazienti. Andando agli inizi, e addirittura agli anni antecedenti il mio essere diventato candidato psicoanalista (avevo all’incirca 28 anni) – a prescindere da un mio iniziale amore viscerale per la poesia, i romanzi e le autobiografie – l’autore da me più frequentato è stato ovviamente Freud, che ho letto quasi subito a partire dal suo percorso, cercando – vale a dire – di esplorare e di conoscere la sua esperienza emozionale con i pazienti (i suoi sentimenti, i suoi timori, le sue ansietà…) e come successivamente sulla base di essa egli fosse arrivato a comprenderli e a costruire una teoria sul funzionamento della loro mente. Trattavo, in sostanza, Freud come se fosse un mio compagno di percorso, sentendomi così – rispetto ai miei dubbi e perplessità – assai sollevato dal confrontarmi con lui e con le vicissitudini in cui anche lui incorreva nel tentativo di aiutare i pazienti a entrare in contatto con se stessi e di comprenderli.
Ho letto nello stesso modo Melanie Klein e, poco più avanti, Wilfred Ruprecht Bion. La Klein mi attirava perché era molto lontana dal mio modo di sentire, ma nel leggerla interveniva in me qualcosa che mi incuriosiva seppure la percepissi “un po’ stramba”. Tutti, però, la adoravano a quel tempo, per cui era difficile mantenersi fermo sulle proprie impressioni. Sull’impressione, per esempio, che fosse un po’ troppo fantasiosa e altresì poco aderente a quelli che potevano essere i bisogni dei bambini piccoli e alle loro reali problematiche. Una mia critica che tipicamente le rivolgevo in quei miei anni formativi era che i bambini sin da piccoli sono sicuramente molto interessati al funzionamento delle menti dei loro genitori (a che cosa vi è dentro la loro mente, ai sentimenti, ai pensieri, alle angosce da cui essi sono occupati e travagliati, alla misteriosità di certi loro sguardi e posture emotive enigmatiche, a che cosa produce in essi piacere e dolore), ma non ritenevo affatto che al centro della spinta epistemofilica infantile vi fosse solo la sessualità, come voleva Freud, e tantomeno come Melanie Klein sottolineava una distruttività e un sadismo primari. Pensavo invece, del tutto all’opposto, che i bambini possedessero una loro saggezza, “animale” se si vuole, benché di certo non fossero consapevoli della correttezza delle loro percezioni e neppure capaci di esprimerle a parole; ritenevo inoltre che si potessero ammalare e che potessero diventare “matti” giusto allorché nessuno rispondeva a loro rispettandone l’intelligenza e la perspicacia e corrispondendo emotivamente al loro intenso bisogno di verità e di una leale e intensa relazione affettiva.
Quando più tardi ho riletto Sándor Ferenczi (la prima volta che, al tempo della mia tesi di laurea in filosofia, lo lessi simultaneamente al leggere Freud e Klein non colsi appieno la sua originale diversità), quando più tardi ho riletto Ferenczi – vi stavo dicendo – mi sono sentito finalmente rassicurato rispetto a questo mio modo di vedere: anche lui vedeva le cose similmente a me cosicché non fui più solo con i miei pensieri e potei, a partire da quel momento, iniziare a espanderli e ad arricchirli. Ho anche ammirato molto Bion, che sentivo nondimeno parecchio astratto e schizoide, ma avendo avuto la fortuna di fare un bel pezzo del mio cammino accanto a sua figlia Parthenope, compagna di training e “torinese” di adozione, ho serbato la mia ammirazione per lui collegando la sua idiosincratica opera ai fatti personali della sua vita. Per certi versi, anche lui era caratterizzato da un’inusitata sincerità e coraggio come Ferenczi, talvolta spietati, ed è per questo che – come ho scritto – v’è una decisa similarità fra il Diario clinico di Ferenczi del 1932 e le Cogitations di Bion scritte fra il 1960 e il 1980 (Borgogno, Merciai, 1997). Ho anche, e molto, amato Paula Heimann, che è autrice ben più ricca di quanto usualmente le si riconosca e che ha fatto uno straordinario percorso di crescita divenendo via via capace di ricredersi e di cambiare idea attraverso il suo incontro con colleghi di vario indirizzo teorico e con i suoi pazienti; e l’argentino Heinrich Racker per il suo analogo interesse per la risposta emotiva dell’analista al paziente e viceversa. Anche Donald Winnicott è un autore da cui ho tratto ispirazione: un autore che continuo a leggere con piacere apprendendo da lui sempre cose nuove, come d’altra parte continuo a leggere Freud e Ferenczi con profitto. Molti Indipendenti Britannici sono pure stati al centro della mia attenzione, Margaret Little e Charles Rycroft per citarne due, e più recentemente Wright e Bollas, seppure la deriva “alla guru” di quest’ultimo (di Bollas intendo) non mi piaccia poiché penso che quando si scrive si debba cercare di essere compresi dall’altro e facilitare il lettore. È, questo, un punto principale del mio modo di concepire il dialogo analitico, che non deve essere misterioso e suggestivo-seduttivo, ma – al contrario – orientato a fare crescere l’altro e i suoi pensieri, non impegnandoli più di quanto non sia necessario e non costringendoli a focalizzarsi così tanto sul funzionamento di una mente altrui (la perdita della freschezza e della semplicità è a mio avviso un tipo di peccato di cui ha sofferto e soffre la psicoanalisi). Sul versante americano, per concludere questa mia rassegna dei “colleghi” preferiti, ho trovato stimolanti Searles, Erikson, Giovacchini, Jacobs e Ogden, e per taluni aspetti anche Bregman Ehrenberg: i loro contributi clinici hanno molto da insegnare ai più giovani.
Per quanto riguarda invece i colleghi «in carne e ossa» che più hanno contribuito alla mia formazione, devo citare innanzitutto il mio secondo analista, Franco Ferradini. Devo a lui l’avermi insegnato che cos’è l’ascolto rispettoso e creativo dei pensieri e delle libere associazioni del paziente, che se messi in rapporto al contesto attuale e passato (e non usati narcisisticamente e dissociativamente rispetto al legame con l’altro) sono una fonte fondamentale di informazione per il paziente e per l’analista, anche se nell’immediato né l’uno né l’altro, e cioè né il paziente né l’analista, possono essere in grado di percepirne il significato preconscio. Da lui ho anche imparato che cos’è trasfondere la fiducia e la speranza: come si possa ossia valutare le comunicazioni dell’altro in una prospettiva che apra al futuro senza incentrarsi prevalentemente sul loro carattere presente che può essere anche patologico. Ho anche appreso in questa mia seconda esperienza analitica come la propria storia sia il capitale che ciascuno di noi ha, capitale che si rende spendibile se essa diventa più consapevole e integrata per l’individuo. La storia era per Ferradini fatta non solo di eventi “di vita”, oltre che di “vissuti” (in questo il mio secondo analista era ferencziano senza saperlo), ma altresì delle “identificazioni inconsce” che ognuno porta dentro di sé a sua insaputa anche quando, consapevolmente, magari pensa in cuor suo di essersene liberato dopo averle respinte e combattute. Non sarei quello che sono – mi vien da dire – se non avessi capito tramite il suo aiuto in quale modo soprattutto mia madre, ma anche mio padre, fossero vivi e operanti dentro di me nel mio affrontare il mondo e me stesso: un qualcosa, questa primitiva assimilazione inconscia successiva a un accumulo di esperienze relazionali, che è ben diverso da una concezione prevalentemente centrata sulle fantasie profonde come le ha descritte Melanie Klein, concezione – quest’ultima (intendo quella di Melanie Klein) – che farebbe scaturire il proprio essere e mal-essere meramente da propri conflitti intrapsichici e spinte pulsionali non necessariamente connessi alle figure specifiche attraverso cui sono sorti e si sono messi in moto. Anche i caregivers hanno in breve nella mia visione il loro “peculiare complesso di Edipo” e i loro conflitti, oltre che naturalmente una loro storia che è sempre unica e particolare, per cui è soltanto con il riconoscere tutto ciò che si diventa pienamente soggetti e si può superare quel narcisismo che non permette di porsi autenticamente in connessione con oggetti che sono esterni a sé e non unicamente “interni” nel senso classico.
Al di là di questa base sostanziale dovuta alla mia esperienza di analisi (in essa includo, come una sorta di “istruzioni in negativo”, anche ciò che mi è derivato dalla mia prima analisi, su cui qui non posso estendermi più di quanto non abbia già fatto all’inizio di questa mia presentazione), sono stati fondamentali i miei supervisori. Quelli ufficiali, Luciana Nissim Momigliano e Giuseppe Di Chiara, da cui mi è provenuto il non accontentarmi mai e persistere nel pormi delle domande (per quanto riguarda la prima) e l’essere capace di pazienza e tenacia nel lavoro con il paziente (un insegnamento che mi è provenuto dal secondo); e quindi quelli non ufficiali (che ho seguito fin da quando ero candidato) come Stefania Manfredi Turillazzi e Pierandrea Lussana, entrambi parecchio rilevanti nella mia formazione di analista (si veda: Borgogno, 2009). Altrettanto illuminanti sono stati ai miei esordi Lina Generali Clements, i cui seminari milanesi (che comprendevano, oltre alla discussione di materiale analitico di pazienti adulti, l’osservazione infantile di una coppia madre e neonato discussa in gruppo e mattinate teoriche) ho frequentato assiduamente già prima di iniziare il training con remunerazione per una decina d’anni, e i vari kleiniani di Londra che dalla seconda metà degli anni ’70 venivano consuetudinariamente ogni mese a Torino, Novara e Milano per supervisioni e conferenze (Athol Hughes, Anne Alvarez, Meltzer, e in seguito Rosenfeld e Betty Joseph per citarne alcuni) e che, ancora più avanti, ho incontrato a Londra a livello personale dal 1984 al 1988: da tutti questi mi sono comunque progressivamente allontanato in quanto la loro “casa teorica e clinica” era troppo aristocratica, come ho detto nel numero 57 dei Quaderni di Psicoterapia Infantile (Borgogno, 2009), e chiudeva fuori da essa – a mio avviso pregiudizialmente e “ciecamente” – numerosi elementi e personaggi della vita reale e mentale giudicati dal loro punto di vista analiticamente non all’altezza e alla stregua di “paria”, seppure sia indubbio che la scuola kleiniana sia, come l’ho spesso definita, una vera e propria “scuola viennese di cavalleria spagnola” dove si apprende non solo a cavalcare ma che cosa sia un cavallo, quale sia l’ambiente adatto per prendersene cura e il dressage che è necessario per muoversi agilmente con lui. Se quelli che ho elencato sono “gli anziani” che più mi hanno influenzato nel periodo di formazione, successivamente ho avuto diversi altri incontri con colleghi italiani e stranieri che hanno segnato per molti versi il mio cammino (Borgogno, 2011), come hanno altrettanto segnato il mio cammino alcuni amici appartenenti al gruppo dei pari, fra cui Dina Vallino, Antonino Ferro, Luís Martín Cabré e Carlo Bonomi, di cui peraltro ho più volte parlato altrove nei miei scritti (Borgogno, 1999b), e naturalmente mia moglie e mia figlia.
4. Come quarto punto, mi soffermo qui su “quali ritengo essere i miei specifici contributi alla psicoanalisi attuale”
Sul piano clinico, l’attenzione all’“onda lunga relazionale” in cui si inseriscono le parole e i silenzi (e non solo dunque l’attenzione al “qui e ora” della seduta) è stato decisamente un mio cavallo di battaglia, un cavallo di battaglia che ho scoperto appieno quando mi sono preparato per l’“ordinariato” (per diventare un “analista full member”). Rileggendo nel corso di due anni le sedute di più di diciassette pazienti, molte delle quali portate in supervisione o “supervisionate” da me stesso subito dopo che erano avvenute, mi sono accorto di come la mia valutazione di esse cambiava se vedevo ciascuna seduta non isolatamente ma come un singolo momento di un tipo specifico di relazione che si era attuato o si stava attuando in un particolare periodo di analisi.
Successe in pratica, in quel periodo di revisione di tutto il mio lavoro analitico, che in molti casi il giudizio che ne venivo dando era completamente diverso da quello che ne avevo dato in precedenza. Quella che in un dato momento, avulsa dal contesto, mi era apparsa per esempio una buona seduta con buone interpretazioni, se inserita nel contesto più ampio dei miei incontri con il paziente in quella fase dell’analisi, non mi sembrava più per nulla una buona seduta ma un enactment in parte inconsapevole di un prototipo relazionale facente parte del mondo interno del paziente e della sua storia, mentre all’opposto sedute confuse – in cui mi ero sentito più incerto e a disagio nelle cose che dicevo – si stagliavano ora come sedute chiave e determinanti, e non poche volte assai migliori in quanto a comprensione di ciò che stava succedendo fra il paziente e me. In esse stava infatti affiorando qualcosa di centrale e sostanziale per quelle analisi, sicché quelli che tutto subito mi erano parsi interventi interpretativi fuori centro e zoppicanti, un po’ bislacchi e anche poco fondati, si dimostravano invece intuizioni preconsce ben centrate e assai rilevanti per individuare e comprendere le dinamiche inconsce del transfert e del controtranfert, e in altre parole tentativi di uscire dall’esserne intrappolati in un modo stereotipato e ripetitivo.
Il non fermarsi dunque sul “qui e ora” e il tenere in conto che la relazione in corso deriva da un’evoluzione e non è qualcosa che sorge nell’immediato (un immediato avulso dal contesto temporale e relazionale più ampio), da quel punto in avanti, mi sono sembrati un insight fondamentale, come altresì fondamentale mi è parso il prendere coscienza di quali messaggi inconsci l’un partner trasmetta all’altro nel dialogo analitico, e soprattutto di che cosa l’analista trasmetta al paziente con i suoi silenzi e con le sue interpretazioni che numerosissime volte corrispondono a un vero e proprio agire qualcosa che non si è ancora davvero capito. L’iniziare a pensare quotidianamente che l’analista quando sta zitto o parla metacomunica continuamente qualcosa circa i suoi sentimenti rispetto al paziente, al trattamento in corso, alle sue ansie e alle sue speranze o meno circa il suo esito futuro, è stato così per me un nuovo punto di partenza nel mio concepire il lavoro analitico e di intendere il transfert e il controtransfert.
Per riassumere brevemente in che cosa è consistito questo mio cambiamento, potrei dire che ho afferrato in quegli anni come uno possa promuovere attivamente un transfert o impedirlo; che sicuramente influenziamo il transfert con le nostre risposte spesso non riconoscendo di averlo fatto o sovente, all’inverso, ritenendo di avere svolto un buon lavoro analitico, che magari per certi versi lo è, ma solo teoricamente poiché di fatto – qui mi riferirò esclusivamente ai metamessaggi “negativi” – noi possiamo persistere nel dire sottosoglia al paziente (e senza rendercene conto) qualcosa come: “Così come sei non mi piaci”; “Così come ti comporti non va bene”; “Fatti più in là, mi dai fastidio”; “Se continui per questa strada non ti faccio più amico”; “Sei proprio cattivo, mi fai stare male”; “Queste cose che dici non le sopporto, quindi piantala”; “Oggi non ce n’è, sono stanco, stiamo alla larga” e così via. Metacomunichiamo insomma desideri, preoccupazioni e angosce, e diamo – eccome! – giudizi su tutto, cercando quasi di “addestrare il paziente” affinché si avvicini e si omologhi ai nostri valori e ai nostri modelli di vita diventando per noi “più simpatico” e meno disturbante per il nostro equilibrio, non molto diversamente da come possiamo fare nel ruolo di genitori con i nostri figli… . A ogni modo la metacomunicazione fa parte del buon lavoro ordinario: l’ho detto in Psicoanalisi come percorso (Borgogno, 1999a) utilizzando in guisa personale le osservazioni di Paula Heimann circa la natura e le funzioni delle interpretazioni dell’analista, quand’ella rileva che, al di là dei contenuti delle interpretazioni, l’analista manda continuamente al paziente dei messaggi affettivi e valoriali consci e inconsci rispetto a che cosa è la vita, a quali sono le difficoltà del vivere, a come si affrontano il piacere e il dolore, a quali sono veramente i problemi determinanti di un’esistenza ecc… . E al di là di tutto ciò – ed è questo un elemento ancora più importante con i pazienti molto sofferenti – l’analista comunica al paziente con quanto gli dice – con le sue interpretazioni cioè – qualcosa come: “Quello che tu dici e fai ha un significato ed è significativo per me”; “Anche se non lo sai tu stai cercando alla tua maniera un rapporto e ti stai rivolgendo con le tue parole e le tue azioni in senso relazionale, a me e ad altri”; “Io sto tentando e mi sforzo di capirti, non so se ci riesco, ma per me è essenziale essere in relazione e comunicare”; “La comprensione nasce unicamente dal fatto che siamo in due e dal nostro reciproco impegno e lavoro”; “Io mi aspetto che tu partecipi come tu ti aspetti che io ti risponda perché questo è un bisogno connaturato alle persone”; “Tu sei per me importante, come anch’io sono importante per te”… .
Un ultimo aspetto che sento mio e che desidero sottolineare come un mio contributo (su questo ho ottenuto le funzioni di analista di training e di supervisione dalla Società Psicoanalitica Italiana nel 1994-1995) è il mio lavoro clinico sul “rovesciamento dei ruoli”, su un tipo di dinamica interattiva inconscia piuttosto difficile da mettere a fuoco ma assai frequente nelle analisi di pazienti che hanno alle spalle una storia di rapporti con i loro genitori alquanto travagliata dal momento che questi ultimi (i genitori), magari anche presenti fisicamente, non lo sono stati affatto psicologicamente in quanto troppo presi da altro o/e troppo fragili, tormentati e sofferenti per potersi davvero occupare di un figlio. Situazioni analitiche – queste a cui mi sto riferendo – in cui il paziente – molto spesso un paziente schizoide (vedi il mio ultimo libro La signorina che faceva hara-kiri e altri scritti) – ha vissuto un’“omissione di soccorso” (è questo un punto su cui ho attirato l’attenzione dei colleghi, focalizzandolo all’interno della nostra pratica). Il paziente ha vissuto un’omissione di soccorso – stavo dicendo – e di conseguenza si è inconsciamente identificato all’adulto aggressore come ha messo in luce Ferenczi (un adulto che può essere “aggressore” semplicemente poiché ha deprivato il bambino delle cure psicologiche necessarie per il suo sviluppo) dissociando in parte o completamente da sé l’intera sua vita emozionale infantile, che dovrà perciò essere a lungo vissuta nel trattamento analitico al posto suo da parte dell’analista affinché il paziente in seguito la possa riconoscere e recuperare facendola sua (il risultato elaborato di questo impersonificare il bambino al posto del paziente da parte dell’analista e del successivo riconoscere l’interazione di questo bambino con l’adulto impersonificato dal paziente è ciò che io chiamo “funzione di testimonianza”). È proprio siffatto approccio alle dinamiche di transfert e controtransfert che, insieme alla mia teorizzazione sugli spoilt children e al fatto che sono attualmente uno degli psicoanalisti di riferimento per quanto riguarda la visione analitica che deriva da Ferenczi, ad avermi reso noto anche a livello internazionale e fatto oggetto di molti inviti a presentare il mio modo di concepire l’analisi e le mie idee.
5. Veniamo adesso a un tema centrale: “che cos’è per me la psicoanalisi e qual è la funzione terapeutica elettiva d’essa”
Per quanto concerne “che cos’è per me l’analisi”, credo di averne ormai già dato l’idea quando l’ho tratteggiata come una conversazione speciale al cui centro vi è quell’“ascolto responsivo” che sa mettere in parole gli accadimenti della relazione emotiva che avvengono nell’esperienza analitica connettendoli alla storia di vita del paziente, alla storia dell’analisi e anche, ovviamente, al suo mondo interno giungendo a capire come esso si sia progressivamente costituito. Ho anche sottolineato, parlando dell’“onda lunga”, che l’analisi non può che essere caratterizzata da molte sedute per molti anni: una condizione che dal mio punto di vista non può essere elusa se si vuole venire realmente a capo delle proprie difficoltà esistenziali. Queste, essendosi via via formate lungo un cospicuo periodo di tempo, come potrebbero essere risolte in un tempo breve? In aggiunta, lavorare con poche sedute e piuttosto velocemente è molto difficile, bisogna essere molto competenti e se in certi casi lo si può anche fare, ed efficacemente, lo si può fare soltanto allorché si è solidi sia come persone sia come terapeuti.
Nonostante tutto ciò penso che le persone possano anche essere aiutate in tempi più brevi, aiutate a rimettersi in moto e magari a temporaneamente ri-animarsi, ma quando il movimento psichico è bloccato e la persona non possiede la sua anima, i tempi di cura sono ineluttabilmente lunghi. Un buon lavoro clinico, che si radica nell’apprendimento dall’esperienza emozionale intercorsa con un’altra persona, non può in sintesi a mio avviso essere breve, necessita di ripetizioni continue (“repetita juvant” anche in senso analitico) e non è certamente un’acquisizione cognitiva, ma il frutto di un consistente percorso relazionale di elaborazione che dovrà diventare parte di sé, essere cioè introiettato e per giunta introiettato in modo consapevole perché il paziente possa usufruirne appieno. La comprensione efficace richiede dunque tempi lunghi e non c’è niente da fare, questo vale anche per l’analista. Io naturalmente ho qui in mente una riconfigurazione “strutturale” di una persona e non un apprendimento intellettivo e neppure imitativo, che – per carità – sono anch’essi un risultato talvolta utile ma pur sempre provvisorio e lungi dal divenire realmente “carne della propria carne”. Per arrivare a ciò il cammino è purtroppo per tutti lungo, ma non ci sono solo gli analisti ad avviarlo e permetterlo. Se uno ha fortuna, altri incontri duraturi possono senz’ombra di dubbio facilitarlo e accompagnarlo.
Per quanto riguarda invece quali siano i fattori essenziali della funzione terapeutica dell’analisi, quelli senza i quali tutto il resto non avrebbe efficacia, credo sia evidente da quanto sin qui ho detto che essi abbiano a che fare con la relazione, con una relazione “speciale” in cui si è disponibili nei confronti dell’altro di cui ci si cura e al suo servizio, al servizio della sua crescita. Ribadisco che si tratta di una disponibilità emotiva e di un generoso porsi al servizio dell’altro che richiede all’analista di diventare temporaneamente il suo paziente e, in molti casi, di ammalarsi altrettanto temporaneamente della sua sofferenza, al fine – dopo averla vissuta sulla propria pelle – di poterla riconoscere e di poter così trovare provvisoriamente delle soluzioni e dei modi di gestirla alternativi a quelli che il paziente ha incontrato o di cui si è avvalso fino a quel momento nella sua vita precedente. Sia Ferenczi che Bion, come ho sottolineato nei miei lavori, avevano bene in mente che il paziente non desidera in analisi ricevere da parte dell’analista solamente delle interpretazioni, ma piuttosto toccare con mano se l’analista conosce il suo dolore e come lo sa gestire o non lo sa gestire e attraverso quali lotte e compromessi perviene a conviverci, a darvi un nome, a elaborarlo e, se possibile, a superarlo (riferendomi a quanto detto ieri da Phillips, se sa cosa vuol dire perdere l’equilibrio e lentamente poterlo ritrovare). Desidera ossia un’esperienza di relazione affettiva e cognitiva attraverso cui confrontarsi e crescere, un’esperienza che si basa sul sentire come l’analista passi attraverso la stessa crisi emotiva del paziente per potere pervenire all’interpretazione dell’esperienza di quest’ultimo. È d’altronde in questo modo che l’analista insegna progressivamente al paziente quello che viene chiamato “pensare i propri pensieri e i propri sentimenti”: che trasmette cioè la funzione alpha di Bion, il contenimento, la reverie, o per usare un altro linguaggio, quello di Fonagy per esempio, l’importante possibilità di riflettere sulla propria esperienza emozionale riconoscendola significativa.
È implicito in quanto ho appena affermato, ma lo ribadisco, che sono importanti le qualità personali che un analista possiede e mette in opera nel suo lavoro con il paziente: innanzitutto la pazienza, la perseveranza e la tenacia, quindi la fiducia nelle proprie e altrui risorse e nella possibilità reciproca di cambiamento, e di conseguenza l’essere capaci di stare nelle situazioni difficili continuando a sentire e a pensare, per quel che si può, anche quando uno non capisce proprio nulla, è sconfortato, e non vede al momento nessun spiraglio trasformativo. È importante infatti che l’analista continui a mantenersi integro e vivo mentalmente e affettivamente anche in questi frangenti senza reagire ad essi con le proprie emozioni non ancora elaborate, e – nel caso non vi riesca – che possa ammetterlo e fare un ulteriore lavoro su di esse a favore del paziente (sempre tornando a Phillips, è importante anche perdere momentaneamente l’equilibrio, ritrovarlo e ammettere di averlo perso senza sentire eccessiva vergogna e umiliazione per averlo perso). Le reazioni l’analista le deve per principio tenere per sé e vi deve riflettere su cercando di vedere quali possano essere le informazioni nuove che esse possono apportare rispetto al paziente e alla sua analisi. Quando ciò non succede, e si può incorrere in questa situazione, è sua responsabilità, come ho appena detto, provvedere analiticamente.
Se poi dovessi pensare a una qualità elettiva del mio modo di funzionare come analista, questa può essere un certo mio entusiasmo nell’affrontare il lavoro, entusiasmo che definirei come la capacità di non farsi abbattere facilmente e di trovare sempre un modo onesto di parlare al paziente delle difficoltà che si incontrano e si vivono, senza artificiosità e senza indurre ulteriori complicazioni e frustrazioni. Penso in sostanza che l’analisi non sia onnipotente e che neppure lo sia l’analista, ma che il loro sia “un lavoro di squadra” fatto da due persone e che in definitiva le chiavi del proprio inconscio e della propria vita le abbia il paziente e non l’analista. Questo, dal mio punto di vista, è persino rassicurante perché non dobbiamo dare noi le chiavi al paziente laddove egli non le possiede ancora – come ha sostenuto Di Chiara (2009) – ma piuttosto dobbiamo aiutare il paziente a trovare lui stesso le sue chiavi e le sue serrature e a continuare a cimentarsi in questo lavoro di rintracciare chiavi e serrature che gli aprano continuativamente la propria vita. Se l’analisi è intesa in questo senso, sovente – lo ricorda nel suo ultimo libro Speziale-Bagliacca (2010) – basta una piccola associazione, un’immagine o un piccolo pensiero per dischiudere una nuova porta nell’incontro con il paziente e rinvenire una possibile nuova via inconscia da perlustrare e “lavorare” con lena.
6. Nell’avviarmi a concludere, offro a questo punto alcuni pensieri concernenti lo scarto tra prassi e teoria in psicoanalisi e l’impatto della presenza di diversi orientamenti teorici nell’universo di matrice psicoanalitica.
Quella dello scarto fra prassi e teoria in psicoanalisi è una questione di notevole complessità e non so neppure inoltre come intendere “lo scarto” tra teoria e prassi su cui qui vorrei pronunciarmi. Darò pertanto, nell’affrontare questa tematica, alcuni spunti al volo.
Per prima cosa direi in generale che delle teorie abbiamo sempre bisogno per inquadrare i fatti clinici di una seduta o di un periodo di analisi; è illusorio pensare di procedere senza teorie e di poterne fare a meno e, per di più, non poche volte utilizziamo teorie che sono diverse da quelle che consapevolmente abbiamo adottato, anche se prima o poi dobbiamo farci consapevoli delle teorie che usiamo, soprattutto quando ci troviamo a trasmettere oralmente o per iscritto la nostra esperienza ad altri, ma non solo in questi casi. Questo divario tra le teorie adottate e quelle che scopriamo di usare è peraltro, nei fatti, un qualcosa su cui è utile fermarsi in quanto di per sé, se ci si sofferma su, può permetterci di raggiungere nuovi dati sul nostro lavoro con uno specifico paziente (Ehrenberg, 1992).
Le teorie comunque, quando siamo all’opera, dovrebbero restare sullo sfondo e non imporsi nel contatto con il paziente che è lì presente con noi, e neppure le teorie dovrebbero imporsi nella ricerca e nella significazione di ciò che il paziente porta; e altrettanto sullo sfondo esse dovrebbero restare quando presentiamo ad altri il nostro materiale clinico, nel senso che dovremmo presentarlo per quanto possibile “nudo e crudo” e non ammantarlo di gergalità o di compiacenze teoriche nei confronti dei propri colleghi. Una cosa, questa, che è purtroppo facile a dirsi ma per nulla facile da effettuarsi, poiché essere se stessi di fronte agli altri implica sincerità e coraggio, e fino a non molto tempo fa significava sicuramente esporsi al giudizio proveniente dalla comunità dei colleghi, un giudizio il più delle volte severo e impietoso. Nel procedere pratico dell’analisi, come è noto, noi dovremmo limitarci a essere pervi verso ciò che accade in seduta mettendo a disposizione di chi chiede a noi soccorso non solo la testa ma tutto il nostro essere, il cuore e la pancia soprattutto, perché è proprio da questo metterci a disposizione – dal nostro essere disponibili ad “accoppiarci” mentalmente per dirla in altri termini – che nasce dentro di noi quella risposta affettiva che, elaborata, ci può permettere di capirlo e, strada facendo, di aiutarlo. Quella risposta affettiva, aggiungerei, che secondo me corrisponde a ciò che Freud chiamava “associazione libera”: un atto ossia di legame nei confronti dell’altro che emerge quasi a sorpresa in quel clima di “attenzione uniformemente sospesa” in cui dovremmo trovarci nella seduta; un atto di legame non immediatamente consapevole che richiede, per essere realmente tale (intendo dire “un’associazione”), un successivo lavoro di soda connessione con lo specifico contesto relazionale da cui scaturisce, seppure in certi frangenti possa capitare di doverlo offrire così com’è (e cioè privo di elaborazione) invitando il paziente a pensarci su insieme a noi. Senza questo lavoro di connessione, che implica il lasciar soggiornare dentro di noi quanto riceviamo dal paziente e “non masturbarsi cerebralmente” “eiaculando via” i messaggi che lui ci invia, l’associazione libera – come acutamente osservava il mio secondo analista – non sarebbe difatti nient’altro che una vera e propria “dissociazione libera”; ed è per l’appunto questo il tipo di risposta – che per inciso avviene frequentemente – da cui dobbiamo guardarci, senza tuttavia lasciarci spaventare dal fatto che ciò possa succedere, in quanto il riconoscere una tale evenienza può essere una buona via da cui partire per approfondire la comprensione di un momento di una seduta o di un’analisi.
Ma per chiudere questo primo punto, vorrei ancora dire sia che non è possibile leggere la propria risposta affettiva al paziente senza una teoria (ed è qui che a mio avviso affiorano floride le differenze e le divergenze tra gli analisti); sia che molta parte della nostra comprensione, che è pur sempre parziale e ricca di lati oscuri, avviene per forza di cose in après coup, e cioè a posteriori. Che cosa vuol dire questo? Che la stoffa di cui è intessuta l’analisi è inconscia e al tempo stesso relazionale, e che per comprendere occorre tutto quel tempo che è necessario per individuare gli schemi valutativi, seppure elementari, che stanno a monte delle nostre reazioni emotive, reazioni emotive che – per farla breve – contengono invariabilmente una qualche forma, per quanto rudimentale e primitiva, di giudizio e previsione della realtà: una proto-teoria potremmo dire. Mi rendo conto che ho appena fatto un “salto mortale” per spiegarmi, ma si prenda quel che dico come un incentivo al pensiero e come un segno di quanto sia complicato l’argomento di cui stiamo parlando.
Passando ora invece alla diversità delle teorie e degli orientamenti teorici ritengo che questa sia dovuta in massima parte ai diversi stili di analisi delle persone e, oltre a ciò, ai diversi mondi valoriali che caratterizzano ciascuno di noi. Le molte teorie esistenti rappresentano, d’altro canto, anche sguardi diversi su uno stesso fenomeno che, se non presi come assoluti, tutti quanti possono essere utili per rispettare la complessità di ciascun essere umano e illuminarne i vari aspetti. La diversità delle teorie non è quindi preoccupante di per sé: fa semplicemente parte della realtà del nostro lavoro. Tutti infatti, lo ripeto, ne usiamo più di una e di alcune di esse si può divenire consapevoli solo in un secondo tempo, e talvolta con stupore giacché esse possono anche non essere del tutto coerenti con la teoria che consapevolmente abbiamo scelto. Diventa all’opposto un elemento preoccupante, la diversità delle teorie, laddove non è più il metodo freudiano di conoscenza a essere in primo piano (Freud parlava di “sovradeterminazione” di ogni fenomeno), ma la pretesa di possedere qualche tipo di verità e di essere in pratica gli unici e prediletti figli e continuatori di Freud. Quando ci si imbatte in ciò (e ancora accade, sebbene più raramente) la psicoanalisi non è affatto più un metodo conoscitivo ma una religione e un atto narcisistico e onnipotente, anche se chi si viene a trovare in questa posizione ha tanto idealizzato la propria visione da non essere solitamente disposto ad accettare una critica come quella che io ho appena espresso (Ferro, 2010).
Un ultimo punto a cui vorrei accennare prima di concludere queste mie osservazioni è se le teorie attualmente in uso si adattino veramente alla pratica dell’analista oppure no. Sì e no, risponderei, in quanto sin dall’inizio è stata presente in Freud una certa contraddittorietà e non coerenza fra quanto egli faceva e come spiegava ciò che faceva; una contraddittorietà e non coerenza che si rendono evidenti dal fatto che, sebbene egli avesse costruito un impianto della cura bi-personale se non addirittura multi-personale, la teoria metapsicologica di cui principalmente si avvaleva (dico “principalmente” perché Freud aveva più teorie metapsicologiche e non solo una) andava in direzione opposta: si concentrava ovvero su una visione della mente per lo più uni-personale e solipsistica al cui centro stavano le pulsioni, la costituzionalità e il conflitto intrapsichico. Una visione, quella di Freud, che oggi sappiamo essere per alcuni aspetti contraddetta dall’evoluzione successiva del pensiero psicoanalitico (se si pensa a Ferenczi bisognerebbe dire dall’evoluzione a lui “quasi contemporanea”) e altrettanto in parte contraddetta dalle recenti evidenze che ci provengono dalla ricerca sullo sviluppo infantile e dalle neuroscienze; una visione che per molti versi ha contribuito e contribuisce, laddove è stata ed è abbracciata troppo alla lettera, ad allontanare la psicoanalisi dalle altre discipline psicologiche e a isolarla. Io non sono, ciononostante, per nulla preoccupato dalla contraddittorietà delle tesi freudiane perché dal mio punto di vista, come ho cercato di descrivere in Psicoanalisi come percorso, noi inevitabilmente comprendiamo solo poco alla volta e in tempi lunghi, e non all’istante. Ci sono voluti, per esempio, molti decenni per capire a fondo che il setting analitico non era altro che l’offerta di un nuovo ambiente, in parte materno ma anche paterno, per curare la sofferenza e stimolare la crescita e per far sì che ci accorgessimo che la psicoanalisi nel suo concreto effettuarsi riguardava sostanzialmente il mettere a disposizione di un’altra persona la propria mente, e insieme ad essa il proprio cuore e la propria pancia, nel tentativo di risvegliare un nuovo processo evolutivo fondato sulla progressiva acquisizione di una più spiccata capacità di rappresentazione del proprio essere e dei propri eventi di vita.
Certo, per sopravvivere come disciplina e come psicoanalisti, dobbiamo accettare che malgrado Freud sia stato geniale “veniva” anche lui rispetto alle conoscenze che abbiamo oggi “da lontano” (è un mio concetto di base) cosicché è inevitabile – se vogliamo avere un futuro – tirarci su le maniche senza remore e tentennamenti, così da far fruttificare l’ingente riserva di esperienza clinica raccolta in più di un secolo di dedizione al nostro lavoro. Ci spetta pertanto, e con ciò chiudo questa mia risposta, un’impresa non da poco ma non è detto che non la si possa lentamente compiere e anche efficacemente. Siamo, come mi piace dire, “in percorso” e non alla fine d’esso, e dunque dipende in gran parte da noi la possibilità di mantenere vivi entro l’alveo scientifico la tradizione freudiana e il suo metodo di conoscenza e cura.
7. In ultimo, qualche pensiero sul rapporto tra la mia personale concezione dell’esistenza, la mia personale concezione della terapia psicoanalitica e sulla mia posizione etica come psicoanalista.
Ciascuno di noi ha una sua concezione dell’esistenza in parte conscia e in parte no, e sicuramente essa, volenti o nolenti, influenza le nostre analisi e i nostri pazienti e, come ho già affermato in quanto più sopra ho evidenziato, accompagna inesorabilmente ciò che trasmettiamo al di là e all’interno dei contenuti delle nostre interpretazioni. Detto ciò, mi è difficile dire quale sia la mia concezione dell’esistenza, se non che essa è laica e non religiosa.
A casa mia si parlava tanto di “serenità” e “provvidenza”. Bisognava essere sereni e fare affidamento sulla provvidenza divina. Da spirito inquieto e ribelle com’ero, mi davano però uggia le stesse parole “serenità” e “provvidenza” in quanto non potevano essere significative per me dal momento che non le vedevo praticate. Non percepivo infatti la serenità di cui si parlava ma anzi sentivo che un “segreto tormento” aleggiava fra le mura domestiche e non constatavo che realmente si provvedesse alle persone ascoltando e rispettando la specificità dei loro bisogni e delle loro richieste. Fatto, quest’ultimo, che mi ha spinto a non demordere dal chiedere una sorta di “prova di San Tommaso” per potere davvero credere alla serenità e alla provvidenza.
Più avanti comunque le cose sono cambiate, soprattutto grazie all’esperire che il mio secondo analista provvedeva a me e che lo faceva aiutandomi nell’avere fiducia in me e nelle mie risorse, anche quando io non credevo ancora a me stesso. È stato così che piano piano nel tempo ho scoperto la provvidenza e con essa, altrettanto lentamente, anche una certa serenità. Andavo per esempio a dormire la sera angosciato e totalmente impotente rispetto ai problemi che avrei dovuto risolvere, ma mi ritrovavo al mattino, con mio grande stupore, molto più fiducioso nel poterli gestire e affrontare, e talora anche con la soluzione in tasca. Ho di rimando cominciato a pensare che la provvidenza esisteva davvero, poiché ne potevo vedere il risultato, ma per me, o meglio per una parte di me, rimaneva (e rimane tuttora) parzialmente misterioso il suo operato. So che essa opera ma non so affatto come. Mi succede la stessa cosa anche quando mi si chiede o voglio scrivere un lavoro: tutto subito mi dico sempre “ma come farò?” e poi, non so come, il lavoro lo scrivo, ma non saprei proprio dire da dove arriva la mia scrittura. Ovviamente intendo per “scrittura” non la scrittura finale, ma il primo e sostanziale abbozzo di idee, abbozzo le cui idee dovranno immancabilmente essere rielaborate ogni volta ad una ad una e a più riprese prima che il prodotto sia concretamente finito, lasciando peraltro “a maggese” il testo fra una ripresa e l’altra. Da dove proviene dunque la “provvidenza”? Sicuramente dall’esperienza che uno ha, dalla farina del proprio sacco, farina seminata e coltivata attraverso i rapporti con gli altri e con sé, e quindi dall’“olio di gomito” che uno mette in campo per far fiorire le “sementa”. Nonostante ciò, la provvidenza – lo voglio ribadire – è per me in definitiva un po’ misteriosa, misteriosa come è d’altronde la vita stessa.
Nel corso del tempo ho finito inoltre per trovarmi a riflettere su fede, speranza e carità: l’ho fatto in Psicoanalisi come percorso e, più direttamente ed esplicitamente, partecipando a un convegno organizzato da Dina Vallino di cui ho pubblicato insieme a Ferro alcuni interventi e le risposte di altri colleghi a questi interventi nel numero 41 dei Quaderni di Psicoterapia Infantile (Borgogno, Ferro, 2000; Borgogno, 2000ab). Rinvio pertanto chi mi legge ai libri dove ho raccolto questi saggi, limitandomi qui a ripetere nuovamente che la fede, la speranza e altresì la carità soggiungono lemme lemme dall’impegno che uno ha profuso nella sua vita, e che bisogna vivere appieno la vita per poterle possedere e potervi credere. Ultimamente mi è successo a Buenos Aires, alla cerimonia in onore della moglie defunta di un collega, di essere colpito dalla fede che hanno alcune persone nella trascendenza e nei valori della religione: era molto che non entravo più in una chiesa, c’erano molti giovani che pregavano autenticamente ispirati e ho provato ammirazione. Soprattutto i canti che uscivano dalle loro gole mi hanno incantato, tanto che spiritualmente mi sono unito a loro, provando un sentimento estetico che era, penso, di comunione. Mi ha fatto bene. Che cosa mi ha fatto bene? Anche a questo riguardo non lo so, non ho una risposta, se non che si è tutti “nella stessa barca”, una barca di gioie ma anche di dolori, e che si può stare insieme in entrambe le circostanze. Mi successe qualcosa di simile già un’altra volta: mi trovavo nella principale chiesa ortodossa di Sofia in Bulgaria, si era ai tempi del comunismo, faceva freddo e c’era molta povertà tutto intorno. Con mia moglie entrammo in questa chiesa per visitarla e ci trovammo coinvolti in una funzione in cui le persone si porgevano spighe di grano, fiori e non ricordo bene quant’altro. Anch’esse cantavano ed erano meravigliose. “Che cosa cantavano?”, mi son chiesto. Cantavano probabilmente alla vita, alla liberazione dall’oppressione, a un futuro migliore, alla possibilità di poter amare e di crescere nel farlo. Io penso che un buon analista e un buon terapeuta debbano conoscere questa canzone, soprattutto quando il paziente non l’ha mai sentita e non la può neanche immaginare.
Quanto all’etica, mi limiterò qui ad accennare all’etica quando si è con il paziente dicendo che la mia attenzione ad essa è coincisa sostanzialmente con il portare all’attenzione dei colleghi con continuità e con sempre maggior vigore il fatto che la “carta dei diritti e dei doveri” riguardava anche gli analisti, e non soltanto i pazienti, i sani e non soltanto i folli, gli uomini e non soltanto le donne, i genitori e non soltanto i bambini… . Pare ovvio tutto ciò, ma il rispetto di chi è più svantaggiato e diverso è una scoperta recente: basti pensare al fatto che non esisteva una carta dei diritti dei bambini almeno fino alla metà del secolo scorso. Una carta che solo dalla seconda metà del secolo scorso in avanti si è iniziata a costruire e che ci trova ancora oggi spesso su barricate opposte quando si parla, per esempio, di diritti e doveri dei genitori e dei bambini, e pertanto sicuramente anche di quelli che pertengono a noi e ai nostri pazienti.
Portando l’attenzione della comunità psicoanalitica su questo aspetto ho sempre avuto in mente vuoi quanto sia grande il dolore infantile e com’esso sia stato a lungo non visto e non opportunamente preso in carico nelle sue varie forme anche dagli psicoanalisti, vuoi quanto sia immensa la permanenza del bambino piccolo anche negli adulti, in particolare la permanenza del bambino piccolo non visto e che non ha parole. È questo del resto il motivo per cui sono stato tutto preso da Sándor Ferenczi e dalla sua opera, in quanto egli poneva in primo piano il “soccorso” alla mente infantile denunciando quanta “omissione di soccorso” (l’ho chiamata così nei miei scritti, rifacendomi a lui) accompagnava la nostra pratica analitica evidenziando al suo interno (e certamente all’interno di ogni vita) una sorta di «commercio inconscio di dolore» (Money-Kyrle, 1951). L’omissione di soccorso è diventata perciò dal mio punto di vista il principale problema etico che abbiamo come analisti, un problema che non è così visibile come l’“abuso sessuale sul lettino” di cui parliamo molto infervorandoci, ma che è ben più vasto, pur nel suo non essere visibile, dell’abuso sul lettino stesso, che non è che una delle manifestazioni dell’omissione di soccorso nei confronti di un’altra mente, come ho instancabilmente dichiarato nelle mie presentazioni pubbliche talvolta facendo scalpitare gli animi di alcuni colleghi.
Tutta la mia riflessione psicoanalitica è ispirata da questo concetto di omissione di soccorso e dal cercare nuove vie teoriche e cliniche per migliorare la nostra capacità di soccorrere un’altra mente non soltanto a livello clinico, ma anche a livello teorico quando formuliamo una teoria sullo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino. A quest’ultimo riguardo, un po’ provocatoriamente, ho iniziato negli anni ’80 a chiedere ai miei studenti e talora ai miei colleghi: “Applicheresti a te stesso e ai tuoi cari le teorie e lo stile di analisi di cui stai parlando o che stai mettendo in atto con il tuo paziente, o no?”. Mi sono mosso in questa direzione innanzitutto nella speranza che si potessero fare dei nuovi pensieri sui nostri comportamenti e sui nostri atteggiamenti quando si teorizza o quando si analizza. È questa, a ogni buon conto, un’area che io vedo come un’area etica, su cui abbiamo ancora parecchio da imparare, anche se negli ultimi decenni, perlomeno all’interno dell’IPA (International Psychoanalytical Association), si è progressivamente fatta sempre più presente e si sta facendo molto per provvedervi spronando le società psicoanalitiche nazionali a riconsiderarla e a impegnarvicisi su.
Riferimenti bibliografici
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