Wu Ming 4
Bompiani, Milano, 2016
“Quello che ci spaventa da bambini, ci spaventa per sempre”
È la frase che compare alla fine della premessa de “Il piccolo regno”, libro di Wu Ming 4, uno dei membri del collettivo Wu Ming (fra i loro molti bellissimi titoli mi piace ricordare “Manituana” e “L’armata dei sonnambuli”).
Quello che ci spaventa da bambini, ci spaventa per sempre, questo il cuore di un libro sorprendente, che potrebbe apparire ad un distratto letteratura per ragazzi, e forse in fondo lo è, come lo sono “L’isola di Arturo” o “Il Barone rampante” però. Storie universali, che cercano di cogliere il momento nel quale lo sguardo cambia, e le cose sembrano trasformarsi davanti ai nostri occhi (o forse siamo noi che le guardiamo per la prima volta, dopo averle a lungo viste senza potercene accorgere?).
È un libro che apre numerosi piani di lettura. Io sceglierò quello del rapporto con il passato, con il “tempo che non passa” come lo chiamava Pontalis, che pare rincorrerci da sempre, da prima ancora che un passato esista.
La storia si svolge presumibilmente in Gran Bretagna nell’intervallo fra le due guerre (“perché c’è sempre una guerra che ci battezza col fuoco” scrive l’autore, mettendoci così sull’avviso che si parla di un tempo al di là del tempo quotidiano, dei giorni che si contano). Infatti sapientemente le specifiche storico-geografiche sono sfumate, domina quell’atmosfera di “prima che tutto accada” (o forse prima che si senta che tutto è già accaduto). Il lettore è trasportato dentro ai giorni incerti, nel territorio cangiante che sta fra la fine dell’infanzia e il passaggio adolescenziale, che trasforma piano piano il prima in un ‘al di là’ a tratti sbiadito e idealizzato, a tratti inquieto e misterioso.
Al di là dei luoghi conosciuti, delle consolazioni infantili che appaiono ormai ammuffite e un po’ logore, al di là di quel senso di magia e avventura che ancora non concede spazio alla disillusione, al di là della paura, che è ancora più eccitazione che dolore.
I protagonisti del libro sono quattro cugini ed un’estate spartiacque, dopo la quale l’infanzia si dissolverà. Non voglio addentrarmi troppo nella trama, per non rovinare la possibilità di assaporare fino in fondo tutte le svolte della narrazione.
Dirò che il piccolo regno, un casale in campagna in cui il narratore i suoi tre cugini e le loro famiglie passano le estati, è, come si addice ad un archetipico luogo dell’infanzia, pieno di angoli amati, di segreti, di animali, di paure e di sfide. È un mondo diviso in regni, con confini ancora netti, che chiedono di essere attraversati; un mondo abitato dalla “gente bassa” e dalla “gente alta”, bambini ed adulti, due territori che si intersecano e si incontrano, divisi dallo sguardo e dai reciproci segreti. Ci sono i nomi di battaglia della “gente bassa” (Merlo, Lepre, Ranocchio, Tasso) i ruscelli da attraversare, le risse con i ragazzi del luogo, le crudeltà incomprensibili che aprono scorci su un mondo oscuro, un tesoro da scoprire, i luoghi spaventosi abitati da uomini/orchi, ai quali avvicinarsi per assaporare la paura, l’eccitazione di un limite che non sarà mai più così definito e sicuro.
E poi compare sullo sfondo, per guadagnare rilievo verso la fine, il mondo degli adulti( la “gente alta”) di volta in volta noioso, sfuggente, misterioso ed angosciante. Compaiono i padri e le madri, gli orchi, vicini di casa misteriosi che offrono merende e sembrano custodire antichi segreti… e gli eroi. Ned, un reduce che sembra vivere in un luogo perduto a metà fra il mondo dei bambini e quello degli adulti, avvolto da uno sfuggente alone di mistero, adorato da grandi e piccoli eppure solitario, malinconico e misterioso, pare essere una sorta di guida per addentrarsi nella terra di mezzo. La sua aura luminosa allude forse a Lawrence d’Arabia (uno dei protagonisti di “Stella del mattino”, un altro romanzo di Wu Ming 4).
Fra infanzia e adolescenza, fra grandi e piccoli, fra il passato ricordato e quello sepolto dentro di noi, fra ciò che si vede e quello che è invisibile agli occhi, ma non per questo meno reale. Così quella che comincia come una prototipica avventura infantile, la caccia ad un misterioso tesoro sepolto, conduce il protagonista a calarsi nel tumulo dimenticato di un antico guerriero, e a ‘risvegliare’ un fantasma addormentato. Da quel momento la storia corre magistralmente sul piano inclinato che separa realtà e fantasia, mondo esterno e mondo interno, fino ad un finale di incredibile, acuminata, analitica precisione.
Il mondo sotterraneo, con tutti i suoi segreti, riemerge per cambiare per sempre i contorni delle cose. Proprio quello che di solito accade in quella stagione luminosa e confusa, quando l’infanzia cede il posto all’infantile, che continua a vivere dentro di noi.
Quello che ci spaventa da bambini, ci spaventa per sempre. “Il piccolo regno” conserva l’impronta di una stagione che ritorna, come l’estate in cui si svolge questa storia, anche se forse non l’abbiamo mai vissuta come la ricordiamo, se non nei sogni.
Recensione a cura di Chiara Matteini